di Fabrizio Scarpato
Michelin, mi porti al mare?
Me lo dice una mattina, a un tavolo del Provençal inondato di ogni bendiddio: Gordes si era inchinata ai piedi di Mariana, offrendole omaggi per il suo ritorno. Forse me lo chiese perché spazientita dalle occhiate e dai sorrisi di Sylvie che invece si prodigava nel portarci bellissime confetture, croissants appena sfornati, pane in tutte le forme e profumi, burro e succhi di frutta, tra i quali spiccava quello di mele granny del Domaine Picasso. Quando Sylvie finalmente andò a rinfrescarsi alla fontana, tutto fu chiaro e sprizzarono scintille di fuoco. Mariana era gelosa a prescindere, tanto da azzannare con gli occhi persino l’incantevole Geneviève che proprio quel giorno era venuta a dirmi che Pulin se ne era andato. Mi abbracciò e mi baciò, promettendomi una cassa del suo “Le Pic” e soprattutto portandomi i saluti di suo padre e di Grenache: entrambi, è il caso di dire, avevano ripreso a vivere, il primo recuperando la capacità di sorridere, il secondo scorrazzando libero tra i frutteti, come sollevato per le condizioni del suo padrone.
Della gelosia me ne frego, non sono problemi miei. Piuttosto rimango sempre spiazzato da ogni manifestazione di affetto nei miei confronti: per diverse vie, Barthélemy e Babette, Routtier e Geneviève, persino la blogger tatuata mi hanno voluto bene, di fatto scavando un fossato tra me e loro. Una voragine grande, profonda, che non potrò mai colmare, perché non saprò mai ricambiare quell’affetto con altrettanta naturalezza: vivo in modo sgangherato nel mio mondo, lontano da tutti. Per volere bene ci vuole talento. E io non ne ho. Ci guadagno che non devo massacrarmi per uscire dalla mediocrità per poi ritrovarmi sempre più solo: per esempio non mi passa nemmeno per la testa di provare a scrivere indegne righe, che ne so, sulla storia del Calvados. Va bene così, a parte l’insana attrazione che provo per Mariana. Amare è un altro discorso: perché se anche hai talento, amare è una guerra e in guerra tutti vogliono vincere, senza fare prigionieri. E io amo Mariana.
Il mare a Les Saintes Maries de la Mer luccica in fondo alla spiaggia e tutto trema come attraverso un teleobiettivo in un’afosa giornata d’estate. Mariana è contenta, io molto meno. Non ho più rivisto il mare da quella notte all’Ile de Sein e ora che me lo ritrovo davanti, il respiro è diventato corto e affannoso. Mariana sguazza tra le onde e mi chiama, manco fosse Anita Eckberg in quel film di Fellini: solo che lei e Mastroianni erano a mollo in una fontana e ci toccavano. Il tuffo spavaldo che qualche mese addietro avrei eseguito con esuberante prepotenza, si tramuta in un approccio timido, come prender confidenza col terrore, per finire in salvo tra le braccia di lei, che mi bacia, mi dice bravo come a un bambino. E io che stranamente non provo vergogna. Ma non faccio in tempo a pensare, che la stronza, ridendo, mi butta giù, le mani sulla testa: quando riemergo sputacchiando, mi dice che sarebbe tornata a New York per rimanere, e mi ricaccia sott’acqua. Riprendo fiato, in tempo per sentire di un programma di cucina alla Cbs e di un piccolo ristorante tutto suo nell’East Village. Da un certo punto in poi la lasciai fare, d’altronde l’avevo sognato: forse se ne vergognava e aveva trovato quel modo chiassoso e fanciullesco per dirmelo. Io invece accettavo passivamente la mia sconfitta, certificavo, col cuore asfissiato dall’apnea, la mia mediocrità al cospetto del suo talento.
Solo per un istante, vedendola mangiare, con divertita partecipazione, un fantastico piatto di coquillages, si affacciò la sensazione che in realtà cercasse di coinvolgermi, senza sapere esattamente come: l’ansia che ne conseguì, mi portò alla più rassicurante conclusione che non gliene importava un cazzo. Fu in quel momento che i vicoli di Aigues Mortes si animarono di musica e balli, e sotto le luminarie, che da un grande albero si diramavano a tutti gli angoli della piazza, si disegnò una sorta di favoloso tendone da circo. Un ragazzo con la chitarra cantava Aicha: mi fermai ad ascoltare.
Comme si je n’existais pas / Elle est passée à coté de moi / Sans un régard, reine de Saba / J’ai dit, Aicha, prends, tout est pour toi / Aicha, Aicha écoute-moi / Aicha, Aicha t’en vas pas…
Sulle note della canzone, Mariana mi chiese con insistenza il cellulare: “faccio un video”. E prese a ballare tra la gente, sotto le luci, al ritmo berbero della musica: teneva il telefonino in mano, il braccio teso di fronte a sé. Sembrava felice, cantava. “Non sono come pensi” disse. E mi restituì l’apparecchio.
Era sera, prima di cena. In giardino la lavanda sfiorita aveva lasciato spazio a una miriade di campanule fucsia che spiccavano a grappoli tra rami di rosmarino e cespugli di macchia mediterranea; la prospettiva disegnava una leggera punteggiatura di iris blu che arrivavano fino ai margini del piccolo stagno, coperto di ninfee. L’orchestra provava le musiche per la cena nella corte. Di fronte al sole al tramonto, io, Mariana, una veranda e due bicchieri di Angel Face: Calvados, Gin e Apricot Brandy. Per me l’albicocca poteva anche andare a farsi benedire, Calva e Gin cinquanta e cinquanta, e due gocce di Cassis. Stavo appoggiato con un piede al muretto, basculando lentamente sulle gambe posteriori della sedia. Il trio sul palco attacca sciallato La Mer di Trenet, una canzone che detesto, ma che spesso non posso fare a meno di canticchiare sotto la doccia, come moltissimi francesi d’altronde. Chitarra, basso e pianoforte, a un ritmo leggermente più lento, molto jazzy. Mariana si alza e mi invita a ballare. Non è il caso. Comincia a danzare in senso stretto, passi, figure: tutti si fermano a guardarla, ammirati. Mi avvicino, le braccia distese lungo i fianchi. Era bella, oh se era bella, era brava, era lontanissima. Come una stella. Mi afferra di colpo per le mani e mi porta sulla pista. Io la stringo alla vita. Lei mi guarda. Bravo. Muoviti così. La stringo ancora. Cosa fai? Ora l’abbraccio. Non così, dai. Stringo più forte. Mi fai male. Ancora più forte. Mi fai paura. Paura, non avevo mai pensato di poter fare paura. Finalmente aveva posato la testa sulla mia spalla, sentivo il profumo dei suoi riccioli neri. Adesso guidavo io, al mio ritmo, vittima e carnefice, toro e torero. Insieme. Immobili.
Le chiavi di una Peugeot 206 cabrio, un cd di Bruce Springsteen, una pallina da spiaggia con l’immagine del giocatore di rugby Sébastien Chabal e un vecchio cellulare: il Commissario Leprieure, della Gendarmerie di Avignone, butta un occhio distratto alla scatola di cartone con i miei effetti personali. Sono seduto di fronte a lui, ma da qualche minuto sembra non pensare ad altro che a un breve video, unica registrazione, di pessima qualità, nella memoria del telefonino. Dètta: “si vede la vittima, la signorina Mariana Burruchaga, danzare tra la gente, probabilmente a una festa di paese. Sembra serena. Tra le voci e i rumori di fondo si avverte la melodia di una canzone, Aicha, forse. La signorina riprende se stessa mentre canta a tempo con la musica in sottofondo. Si percepisce abbastanza chiaramente il finale, gli occhi puntati dritti al cuore dell’obiettivo “… moi je ne veux que l’amour.” E poi: ” Ti amo Michelin”. Il Commissario rivive la scena stando seduto a cavalcioni della scrivania, e s’incazza, gli occhi persi oltre l’orizzonte della sua bottiglia di birra: non riesce a capire come si possa buttare via la felicità in quel modo, quando è così a portata di mano, quando la puoi stringere forte, tra le tue braccia. E mi guarda, come si guarda l’ultima delle merde di questo mondo.
Io fisso le vene delle mia mano destra, con l’indice e il medio della sinistra ne seguo il turgido e aggrovigliato disegno. In silenzio.
Poi sorrido, beffardo: tra pochi giorni nel mio giardino fioriranno di nuovo i crisantemi.