Rilanciamo l’intervista al presidente dell’Oiv Luigi Moio sul portale del Vinitaly. Una chiacchierata in tutto tondo da cui si evince che: in Italia serve più formazione pratica; il lavoro dell’enologo si sta spostando sui campi; il gloabl warming ha cambiato le carte in tavola. Buona lettura
Era dai 40 anni, dai tempi del professor Mario Fregoni (1985-1987), che l’Italia, che pure è uno dei maggiori contributori dell’Oiv, non aveva la presidenza. Il professor Luigi Moio è stato eletto all’unanimità, dopo il ritiro del candidato australiano, che al primo turno non era andato oltre il 20% dei voti.
Professore ordinario di Enologia, viticoltore, accademico dei Georgofili, presidente di Oiv, è autore di un saggio scientifico che, con 40mila copie, è un best seller, il cui titolo, Il Respiro del Vino, spalanca le porte a un viaggio olfattivo e culturale nell’approccio al nettare degli dei. L’attività di ricerca è costante, spinta da una passione unica per il vino. «Negli ultimi anni – racconta a Vinitaly – mi sono sempre più spostato dalla cantina al campo. Mi interessa davvero capire la fisiologia vegetale, come funziona la pianta e come è possibile orientarla nella produzione di grappoli d’uva con un equilibrio biochimico funzionale all’obiettivo enologico e, ovviamente, in un contesto ecocompatibile, ossia come avere il grappolo perfetto per il vino che si ha in testa».
Quali saranno le nuove sfide che affronterà da presidente dell’Oiv?
«L’Oiv in questi anni si è molto evoluta, soprattutto con la trasformazione dell’office in internazionale; l’obiettivo principale sarà quello di rafforzare ulteriormente il ruolo di riferimento scientifico dell’organizzazione a livello mondiale, così da armonizzare la filiera vitivinicola. Uno degli obiettivi è quello di accompagnare entro il prossimo triennio l’ingresso della Cina nell’Oiv, dal ruolo attuale che ricopre di osservatore. Un altro aspetto riguarderà il rafforzamento del confronto del mercato globale, così da facilitare al massimo scambi internazionali del vino. Ricordo che l’Oiv è un organismo scientifico ed è una realtà che si muove su un palcoscenico mondiale anche per promuovere il vino, testimone e ambasciatore del territorio, paradigma di diversità, anti-standard per definizione. E in una fase in cui il rischio diffuso è l’omologazione, è necessario comunicare ed educare il consumatore e tutelare il rispetto delle regole e delle normative. Un altro obiettivo è agevolare il confronto fra esperti che hanno competenze diverse, attraverso un confronto multidisciplinare, che deve stimolare e sensibilizzare il dialogo su sviluppo sostenibile, cambiamenti climatici, strategie di enologia a basso impatto ambientale. Non dobbiamo dimenticare che sta crescendo ed è ben più alta rispetto al passato la sensibilità dei consumatori verso la richiesta di trasparenza, sicurezza sanitaria, rispetto dell’ambiente. Una volta al centro del dibattito c’erano le pratiche enologiche, oggi il confronto è più ampio ed è multidisciplinare e i cambiamenti climatici stanno aprendo un nuovo scenario».
L’Oiv ha rivisto le definizioni di IG e DO. Qual è l’obiettivo? È una direzione utile per dirimere o prevenire questioni sull’uso di nomi e protezioni a livello internazionale?
«Noi lavoriamo sul consenso, per tappe, come è naturale per qualsiasi organizzazione intergovernativa, attraverso processi che durano anche anni, ma per approdare a soluzioni armoniche e all’approvazione delle risoluzioni in assemblea generale. La revisione delle Indicazioni Geografiche è un aggiornamento, che non stravolge la definizione precedente, ma ha l’obiettivo come sempre di rispettare le tradizioni, la storia, la cultura di ciascun Paese membro».
Dove si sta orientando la sperimentazione dell’Oiv? Vi sono differenze o esigenze particolari fra Paesi?
«Il cambiamento climatico è indubbiamente una parte oggetto di studio molto importante, tanto che è stato messo un gruppo multidisciplinare ad hoc di sviluppo sostenibile e cambiamenti climatici, chiamato ENVIRO, che recentemente ha portato in approvazione una soluzione sui criteri dell’impronta ambientale. Continuano, in parallelo, anche le attività legate all’attività normativa, allo sviluppo delle pratiche enologiche, gli sforzi in ambito di etichettatura, così come gli studi relativi ai nuovi metodi di analisi per controllare e tracciare la produzione, aspetti cioè legati alla sicurezza alimentare. Alcune tematiche variano da Paese a Paese, a seconda della sensibilità e del coinvolgimento. Le faccio un esempio. Una problematica molto sentita negli ultimi anni dagli australiani era legata agli incendi boschivi, col problema del fumo che va a legarsi sulla pruina, trasmettendo poi i sentori di fumo al vino. Gli studi si sono pertanto concentrati per cercare di eliminare i contaminanti olfattivi dovuti agli incendi boschivi che si generano accanto a distretti viticoli.
Un altro aspetto importante dell’Oiv è lo sviluppo e l’approvazione di metodi analisi sempre più precisi e sensibili, tematica importante per il controllo e la tracciabilità dell’intera filiera. L’applicazione di metodi di analisi condivisi e riconosciuti a livello internazionale, è necessaria per armonizzare i controlli, le ricerche, le analisi e rendere i dati comparabili».
Il biologico è un fenomeno in espansione. In quale direzione si sta orientando la ricerca?
«La strada è quella della viticoltura green, del rispetto dell’ambiente, della sostenibilità. Si dovrà andare in quella direzione. Il biologico è una risposta, che trova il riscontro nel gradimento dei consumatori, ma dobbiamo essere attenti nell’affermare che con l’utilizzo di rame e zolfo nella viticoltura biologica non si va verso un vero rispetto dell’ambiente, perché entrambe le sostanze sono dei contaminanti. Poi c’è un aspetto legato all’espressione sensoriale varietale e territoriale del vino, in particolare, il rame è un forte ossidante che modifica il quadro aromatico del vino e lo zolfo anch’esso può snaturare il profilo odoroso del vino nella direzione opposta da quella determinata dal rame. Dunque non possiamo affrontare queste problematiche senza tener conto di ciò e senza avviare programmi di ricerca scientifica ad hoc per sviluppare e definire con estrema precisione strategie di difesa rispettose dell’ambiente e realmente sostenibili».
Come sostituire rame e zolfo?
«Non si possono per ora sostituire, ma vanno utilizzati in modo intelligente. Ben consapevoli che un approccio biologico alla viticoltura non può essere attuato dappertutto, nella bassa collina, in zone con molta umidità. Il messaggio deve essere chiaro: vi sono condizioni pedoclimatiche che permettono di produrre col sistema bio e altre no, e lo stesso per alcune varietà, che sono più adatte di altre. Inoltre, bisogna avere una profonda conoscenza dei cicli biologici delle varie malattie come oidio e peronospora, sapere come guidare la pianta, applicare strategie di gestione della chioma precise ed accurate. La ricerca comunque va avanti. Poi c’è l’aspetto dei vitigni resistenti, che è importante ma comunque anch’esso complicato, perché bisogna garantire il mantenimento dei caratteri identitari e sensoriali del vino: con il Sauvignon blanc, per esempio, è più difficile perdere il suo carattere varietale, lo stesso dicasi per le varietà a carattere “moscato” oppure per il Pinot noir. Ma se si passa a vitigni più neutri, quelli che nel libro Il Respiro del Vino ho definito “orchestrali” che cosa succede?».
Che suggerimenti si sente di dare ai viticoltori?
«Di essere molto attenti e precisi, perché piantare una vigna significa fare un investimento per una ventina d’anni almeno. Suggerisco di registrare ogni evento della vendemmia, per evitare di ripetere gli stessi errori in futuro».
Si parla sempre molto di sostenibilità (che il professor Scaramuzzi, presidente emerito dell’Accademia dei Georgofili, definiva più correttamente “razionalità”). Quali sono le priorità per il settore?
«Fare viticoltura oggi significa fare Agricoltura con la A maiuscola. Le discipline da studiare non sono diverse da quelle trasmesse negli anni d’oro della formazione delle Scienze agrarie, dagli anni Quaranta agli anni Ottanta. Serve un approccio multidisciplinare e servono competenze di pedologia, agronomia, coltivazioni arboree, coltivazioni erbacee, biochimica, chimica, microbiologia, tecnologia alimentare, zootecnia, economia, microeconomia, macroeconomia, economia aziendale. Senza dimenticare la parte ingegneristica sulla gestione dell’acqua e del suolo, la sensibilità per contrastare i cambiamenti climatici, per le rotazioni colturali, per ridurre le emissioni in atmosfera.
Quando parliamo di viticoltura dobbiamo anche essere chiari sul fatto che non è possibile produrre vino dappertutto e farlo bene, perché se coltivo una pianta dove è difficile portarla a frutto e intervengo per compensare quegli elementi naturali che non ci sono, magari creando una serra, portando acqua e calore, devo essere consapevole che sto disperdendo energia. Pensiamo alla pista da sci nelle zone del Golfo Persico».
Qual è il suo suggerimento?
«Dobbiamo essere consapevoli che viviamo uno scenario diverso rispetto a 40-50 anni fa e che, per questo, bisogna lavorare con la ricerca per continuare a fare i grandi vini nelle aree tradizionalmente vocate, che emozionano di più e che fanno sognare, perché quei luoghi sono i locomotori del mondo: Borgogna, Bordeaux, Champagne, ma anche tutta l’Italia, che è il vero Paese del vino dalle Alpi a Lampedusa. Il problema è che alcune dinamiche sono cambiate, per effetto dei cambiamenti climatici e non solo».
Ad esempio?
«Ad esempio le acidità sono più basse, gli accumuli di alcol sono più alti, si deve intervenire con alcuni strumenti, che non possono essere di certo gli obiettivi di selezione degli anni quaranta e Cinquanta, quando si selezionava per accumulare più zucchero; oggi bisogna selezionare cloni che non accumulino più molto zucchero, ma una maggiore acidità titolabile e uno zucchero più basso. Se siamo in una zona che vive una condizione di scarsità d’acqua dovremo avere un portainnesto che richiede l’apporto di meno acqua. Il problema non è coltivare nelle aree desertiche, ma nelle aree riconosciute e nelle zone tradizionali.
Fare un vino buono è facile, fare grandi vini è difficile, ed è possibile farli solo dove si verifica una perfetta sintonia fra pianta e contesto pedoclimatico, così direttamente si interviene sulla sostenibilità ambientale.
Altro elemento è dato dal fatto che la preparazione in materia di viticoltura e di enologia va fusa e l’enologo deve avere competenze elevatissime fra le scienze agrarie e l’enologia».
Quali sono le nuove frontiere dell’enologia?
«Il vino si programma in vigna e non in cantina. Solo così si va verso un’enologia leggera, meno invasiva. D’altronde, l’equilibrio dovrebbe già esistere nel grappolo e l’enologo deve diventare, così, assistente di processo, con un ruolo di preparazione del grappolo d’uva. È questa l’unica logica per fare vini importanti, perché alla base devono essere una fedele restituzione del territorio in quella accezione complessa e intraducibile che è il terroir».
Che cosa manca alla formazione, oggi?
«Avendo vissuto le scuole enologiche di una volta, ho l’impressione che sull’aspetto teorico non ci siano problemi, anche con la formazione universitaria triennale. La formazione è altamente professionalizzante, ma manca l’assetto pratico, quelle che erano le cosiddette ore di esercitazione, difficili in un contesto universitario, perché serve il personale tecnico, le strutture, il personale di mantenimento dei campi, della parte agricola e della cantina. In Francia e Germania è stata mantenuta la parte di formazione pratica, anche perché i centri di formazione non sono molti. È vero che, grazie al progetto Erasmus o attraverso stage in cantina si possono colmare le carenze pratiche. Ritengo che sia molto importante per una formazione di livello trascorrere periodi all’estero, apprendere bene le lingue straniere e fare esperienza diretta in cantina».
Oggi chi sono gli studenti di enologia? Hanno tutti un’azienda vitivinicola?
«In passato erano molti di più gli studenti che erano figli di viticoltori, proprietari di aziende e di cantine. Oggi c’è un’attrazione forte per il mondo del vino e c’è un sostanziale equilibrio. Il 50% degli studenti viene da quel mondo e il 50% non ha un legame diretto con il vigneto e, paradossalmente, spesso sono quelli più bravi».
La riforma della Pac 2021-2027, in vigore dal 2023, introduce (progressivamente) il cosiddetto Terzo pilastro sulla condizionalità sociale. Pensa che la viticoltura, con molti operatori stagionali, dovrà modificare il proprio approccio flessibile verso il lavoro stagionale per non perdere gli aiuti comunitari?
«Differenze all’interno dell’Ue possono esserci, ma il problema è un altro e cioè che non c’è manodopera. Perché? Io dico che il rispetto verso i lavoratori deve essere altissimo, altrimenti si rischia di avere una carenza di manodopera sempre maggiore. Accanto al rispetto imprescindibile dei lavoratori, la formazione sarà l’altro tema da approfondire, perché chi opera in vigneto deve essere altamente specializzato. Dalla potatura alla raccolta, non ci si improvvisa».
Il vino è sotto attacco sul piano della salute e il rischio è di avere in futuro un’etichetta con fuorvianti indicazioni nutrizionali. Cosa risponde?
“Sono indicazioni completamente fuorvianti e le spiego perché. L’informazione più importante che deve comparire in etichetta, già c’è: è l’alcol etilico, riportato ormai da anni. Mi dica: secondo lei un vino viene scelto in base all’apporto calorico? Un’indicazione del genere di fatto mette sullo stesso piano una bottiglia di Romanée Conti con un vino qualunque, perché hanno esattamente le stesse calorie, ma non credo che il vino venga scelto su questi presupposti e che l’impatto emozionale conti nulla.
Siamo giunti ormai al paradosso. Alcuni all’estero in etichetta hanno scritto ‘no colesterolo’, ‘no acidi grassi’, ‘trigliceridi zero’, ‘sale zero’. Così si approfitta per dire cose di cui tutta l’umanità ha paura, omettendo l’alcol. Questo per dire del dibattito attuale: è fuorviante riportare il valore nutrizionale applicato a una bevanda alcolica. Dovremmo invece ricordarci che per fare il vino non esistono ingredienti, l’unico ingrediente è il grappolo d’uva. E basta. Come Oiv da anni abbiamo ben classificato gli additivi, distinguendoli dai coadiuvanti. L’unico elemento esogeno che rimane è l’SO2, che già viene riportata in etichetta».
Dai un'occhiata anche a:
- Lo strepitoso ritardo del marketing del vino italiano sulla pizza e viceversa
- O la critica gastronomica è positiva o viene rifiutata. Perché cuochi e pizzaioli non accettano le critiche?
- Donne e vino: da Antonella Boralevi ad Antonella Viola
- Come è cambiato il mestiere di chi vende il vino? Sentiamo Valerio Amendola che lo fa da 30 anni ed è figlio d’arte
- In Italia mancano 250mila figure professionali, ma la colpa è dei titolari
- Ristorazione fine dining in crisi: se l’Italia non ride la Germania già piange
- Marco Contursi. Una pizza in teglia da incubo. Perchè, perché?
- Lettera di una “cameriera” calabrese a Vittorio Feltri