Luigi Moio: la Borgogna come metafora dell’Utopia

Pubblicato in: Polemiche e punti di vista


Più passa il tempo e meno sono padrone del mio tempo, sicché si può dire che un travaso dentro la clessidra della vita delle ore libere in quelle in cui non si dispone dei desideri della propria mente è il segno progressivo del passaggio dall’infanzia alla maturità.


Però spesso si tratta di un alibi costruito a se stessi: la telefonata di Luigi ha solo confermato quello che avevo deciso di fare dopo l’invito di Marco Ricciardi, mollare tutto, qualsiasi cosa fosse, e andare alla sua conferenza sulla Borgogna organizzata dall’Ais Caserta alla Botte, uno dei più qualificati centri culturali del Mezzogiorno.

Per la prima volta in Campania questo argomento considerato clou nel settore vitivinicolo è trattato da un professionista e in modo scientifico fuori dall’Accademia. Luigi ha passato cinque anni in Borgogna studiando gli aromi del Pinot e dello Chardonnay firmando anche importanti lavori sull’argomento, è Ordinario di Enologia alla Federico II ed è stato uno degli uomini chiave della modernizzazione del vini regionali.

La sua sintesi non nasce dunque dallo zapping su internet o da qualche viaggio vacanza, è il risultato di anni e anni di ricerche, studi e approfondimenti.

Dalla conferenza e dal percorso sensoriale nella Côte-d’Or attraverso otto Pinot Aoc è emerso chiaro il suo punto di vista sul sistema vino, ed altrettanto chiaramente è emerso come la Borgogna sia per lui in realtà tutto ciò che l’Italia non è, quasi un non topos, appunto, l’Utopia.

In primo luogo per la scelta dei vitigni, due i principali. Quelli e solo quelli a differenza del nostro paese dove tutti piantano di tutto in ogni luogo. In secondo luogo per i metodi di vinificazione, ormai definiti in modo classico. Infine per la precisa gerarchia di qualità legata alla disposizione dei terreni che nessuno si sogna di mettere in discussione né sul piano normativo e tantomeno su quello fattuale.

In sintesi, la Borgogna di Moio non è altro che l’espressione del metodo galileano di annullamento di tutte le varianti per valorizzare il comportamento preciso di un solo fatto. Il suolo, appunto, soggetto solo alla variabile climatica. Un modello perfetto a cui si è arrivati per approssimazioni successive nel corso di molti secoli, nel quale la qualità e il prezzo della bottiglia dipendono interamente dal luogo in cui nascono e non dalla scelta dei vitigni e dai metodi di vinificazione.

Il sistema francese, insomma, che ha un preciso riferimento, anche legato all’altimetria, a quello romano in cui l’eccellenza del Falerno era tra il Faustiniano e il Caucino. Un modello produttivo che conviene a tutti i produttori dell’area e che per questo è difeso da tutti, indipendentemente dal reddito in cui l’ossessione dell’identità è esaltata dalla precisa identità sensoriale delle uve protagoniste, pur nelle mille variabili possibili.

Il Pinot è come un orchestra che ha Pavarotti, questo l’esempio, la cui voce è riconoscibile anche se uno degli elementi stona. Non tutti i vini hanno questa forza olfattiva così precisa, Moio ha citato tra i vitigni italiani solo il Fiano e il Moscato. Però non è possibile avere identità senza il territorio che la esprime esaltando le diversificazioni.

Il professore è, come noi, figlio del caos epocale e geografico: un po’ di formazione e un po’ di spinta generazionale, è portato a risalire la corrente del disordine, fatto di opportunismi, ignoranza, furbastrate, esibizioni, come fanno i salmoni. Un impegno enorme, che raramente si riesce a condurre nell’arco di una sola vita e che per questo spinge tutti a comportarsi nel modo opposto, ossia seguendo la corrente dell’istinto rispetto alla costruzione della ragione.

Ho sempre pensato che alla fine la grande distinzione tra destra e sinistra sia proprio questa: il rapporto che ciascuno di noi ha tra l’uso delle risorse energetiche rapportato al tempo di vita individuale, lo scontro antico tra la società pastorale dei nomadi e quella rurale delle popolazioni statiche.

Nel primo caso si sviluppa uno spirito pratico e il bisogno spinge a consumare le risorse nella convinzione che alla fine il problema dell’assetto complessivo del reale non è compito dell’individuo la cui vita è troppo breve. Un esempio moderno è la posizione dei repubblicani americani nei confronti del problema del surriscaldamento del Pianeta.

Nel secondo caso l’individuo deve cedere qualcosa frenando o moderando gli istinti in nome di un vantaggio superiore che deriva dall’organizzazione sociale complessa. Un esempio è stata l’Unione Sovietica, il più grande tentativo fatto dall’uomo di realizzare il modello utopico.

E la storia in realtà non è altro che è un pendolo fra queste pulsioni, Oriente e Occidente, Traiano e Attila in cui ora pare vinca l’una, ora l’altra.

Indipendentemente dalle sue convizioni politiche, di cui non abbiamo in effetti mai parlato, Moio si iscrive al partito dei costruttori, dei facitori, di coloro che aspirano alla reificazione dell’Utopia.

Questo atteggiamento oggi, nell’era compulsiva del Mi Piace d’istinto e della risposta efficace anche se priva di contenuti in tv, è decisamente d’antan e questo spiega perché il suo rigore non è facile da digerire da chi non ha voglia quanto meno di realizzare lo stesso impegno fisico e mentale. Per un bimbo, il massimo dell’istintività, rompere un castello di sabbia è molto più facile e divertente di costruirlo.

Nel corso della rivoluzione vitivivinicola, l’Italia, priva di maturità commerciale, ha adottato il modello americano che deve recuperare i secoli di  svantaggio annullando il fattore territoriale con la perizia dell’enologo e l’uso della ricerca oltre che con l’egemonia culturale nel campo della comunicazione. Finisce così che il mercato dei bordolesi viene alla fine fatto da Parker e dal suo modello di punteggi. L’enologo, dice Moio, è il vero nemico del terroir.

Non c’è conclusione possibile in questi ragionamenti, se non sapere che, in questo campo, c’è un modello di riferimento preciso a cui sarebbe opportuno uniformarsi.

Chi segue l’istinto se ne allontana, chi lo domina si avvicina. Il finale è da scrivere, ma forse noi non lo vedremo, non per colpa della nostra finitezza, ma perché non ci sarà mai un finale con il punto.

E forse questo è il bello della vita. E del vino.


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