Prima il lunedì era per i giornali un giorno simile alla raccolta del grano per i contadini. Adesso forse potrebbero fare a meno di uscire. Eppure vale sempre la pena leggerli. La Stampa ha lanciato una serie sui grandi chef del mondo e Luca Bergamin è andato in Danimarca per intervistare René Redzepi del Noma.
Ve la offriamo come lettura caso mai vifosse sfuggita.
René Redzepi arriva sul molo di Strandgade in sella alla sua bicicletta vintage con una borsa di tela a tracolla colma di bacche di sambuco, germogli ed erba cipollina. Dietro al cuoco trentaquattrenne del Noma – Nordisk e Mad, contrazione delle parole Cibo e Nord – nominato per la terza volta consecutiva miglior ristorante del mondo dalla giuria del «San Pellegrino World’s 50 Best Restaurants Award», sopraggiungono a ruota i suoi camerieri biondi dagli avambracci tatuati e la barba vichinga. «Torniamo proprio adesso dalla spedizione bisettimanale nei parchi di Copenaghen, tra le tombe del Cimitero Assistens Kirkegard, abbiamo raccolto un aglio selvatico buonissimo. Abbiamo anche una barchetta per pescare il lompo, le sue uova sono squisite». Redzepi invita ad accomodarsi sulle seggiole ricoperte di pelle di caribù del Nordatlantens Brygge, il magazzino in mattoni granata dalle travi in legno di metà Settecento che ospita il ristorante. I tavoli sono ornati da sculture di rami di finocchio e uova di pellicano. Assaggiamo il «fiordo norvegese», la «pellicola di latte con erba, fiori e aromi», il «brodo ristretto di legno di betulla al vapore, finferli e nocciole fresche». Per finire, il «pupazzo di neve». Sapori di saghe nordiche.
E d’estate andava in vacanza dai nonni in Macedonia…
«Allora odiavo le ferie estive. Adesso so che quei mesi trascorsi a raccogliere more selvatiche e castagne, mungere le vacche, tirare il collo alle galline, spostarsi da un podere all’altro col carretto trainato dai muli, cuocere il pane nel forno malandato dei nonni mi sono serviti per inculcarmi l’amore per la terra. Così come l’essere cresciuto mangiando fette di pomodoro con sale e olio di oliva e fegato di pollo coi fagioli quando in Danimarca si cucinavano solo cibi precotti e patate».
Quando è scattata la scintilla e ha capito che voleva diventare chef?
«Un amico si iscrisse alla scuola alberghiera, io lo imitai quasi per gioco. Alla seconda lezione, l’insegnante imbandì una gara di cucina a tema libero. Sfogliammo insieme tutti i ricettari che avevamo, io scelsi il pollo in salsa di anacardi anche se non sapevo cosa fossero. Io che adoravo bighellonare e giocare a pallone, di colpo scoprii il piacere di sorprendere con un piatto. E lì è cominciato il viaggio che mi ha portato al Palads Hotel di Copenhagen, al mitico Le Jardin des Senses di Montpellier, a El Bullí di Ferran Adriá…».
Il viaggio decisivo, però, è stato una spedizione tra i ghiacci.
«Era il 2004, stavamo viaggiando tra Islanda, Isole Faroe e Groenlandia per visitare affumicatoi, distillerie, aziende di pesce, quando, mentre eravamo a caccia di bue muschiato, fummo bloccati da una bufera di neve. Riparammo in una fattoria e per quattro giorni restammo completamente isolati. A diretto contatto con la verginità del paesaggio, maturai in quei giorni l’idea di una cucina che esaltasse i prodotti nordici, trasmettesse al palato il sapore del trascorrere delle stagioni».
Far assaggiare l’inverno, viste le temperature rigide, deve essere stato complicato all’inizio, tanto è vero che gli altri ristoratori di Copenhagen la prendevano in giro, chiamavano il Noma «Al Capodoglio ingrifato»…
«Schopenhauer diceva che prima ridono di te, poi ognuno va contro di te e infine tutti dicono che era ovvio… La sfida massima del Noma è proprio rendere saporiti i pochi ingredienti naturali che crescono nel periodo più freddo come il centonchio, l’acetosella, l’ortica».
Perché serve ancora ai tavoli? Il miglior chef del mondo che fa il cameriere…
«Se è per questo una mia cameriera l’ho anche sposata: è Nadine, mia moglie appunto. Penso sia un gesto di umiltà, mentre farsi vedere alla fine del pasto è uno sfoggio di presunzione».
Per la stessa ragione «si camuffa» da aiuto cuoco e torna sguattero di cucina nei ristoranti esotici dell’Asia?
«Ora sta diventando più complicato, anche per i miei doveri paterni: l’ultima volta l’ho fatto per tre settimane in un ristorante di Kyoto, è importante capire e sperimentare cucine così lontane da quella nordica».
Pensa che il trend della cucina nordica durerà nel tempo? Qual è il suo desiderio adesso che è già una leggenda della cucina?
«Voglio che la cucina del Noma diventi un classico della gastronomia mondiale, per la bontà degli abbinamenti che proponiamo, il legame viscerale con questa terra, lo sforzo di fantasia e il gusto per il design abbinando alle pietanze conchiglie, legno di betulla, pietre, fieno, foglie di alberi…».
Il conto di una cena al Noma rispetto a quello di altri posti della stessa categoria non è troppo salato, poco più di 150 euro per le 16 portate del ristorante più famoso del mondo.
«Io voglio che ai nostri tavoli siedano tutti, e provino indistintamente con la gola, gli occhi, l’olfatto il piacere di penetrare nel profondo di questi luoghi. Il profitto annuo supera di poco i 100 mila euro. Non si può certo dire che ambisca a diventare un milionario».
Un po’ di tempo libero ce l’ha?
«Pochissimo, vado a fare un bagno di vapore nella sauna della “Libera città di Christiania”, mi piace l’atmosfera molto rilassata di quella comune, la sauna è accanto al garage dove costruiscono i carretti per scarrozzare i bambini in bicicletta su e giù per i ponti e le isole della capitale (lo faccio anche io con la mia famiglia) e poi mi piace uscire con la barca, pescare, fare picnic sugli isolotti appena fuori Copenhagen, raccogliere le conchiglie».
È durante una di queste gite fuori porta che le è venuta l’idea di far mangiare le formiche vive?
«All’ultimo Mad Food Symposium che organizzo a Copenhagen, l’altra settimana, le abbiamo fatte assaggiare ai migliori chef del mondo e tutti sono rimasti entusiasti, con lo yogurt sono molto gustose. C’era lo stesso pregiudizio nei confronti dei licheni. Bisogna provare prima di giudicare».
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