di Luciana Squadrilli
Gianfranco Iervolino, l’arte della pizza
Arriva pure la Pizza Napoletana a LSDM, e non a caso siamo (anche) in una pizzeria. Si parte con Gianfranco Iervolino, bravissimo pizzaiolo di Palazzo Vialdo, che Tommaso Esposito presenta come due volte artista: cuoco e musicista chansonnier, poi diventato anche pizzaiolo dedicandosi anche a quest’arte con passione e impegno.
Prima di cominciare, Esposito ha spiegato al pubblico milanese la sua tassonomia della Pizza Napoletana, che cambia forma e dimensioni a seconda delle zone della città e delle scelte del pizzaiolo. Quella di Iervolino, spiega, è una pizza di taglia L – che arriva a un cm dal bordo del piatto – e si inserisce nell’ambito della “Pizza Napoletana nuovissima”, che non ha paura di innovare su impasti e condimenti: Iervolino è stato tra i primissimi a proporre in ambito partenopeo un tipo di pizza “gourmet”, passateci la definizione ormai sterile. Questo pur rimanendo nell’alveo della tradizione ricercando la morbidezza e la scioglievolezza del connubio tra impasto e topping. Allievo di Sergio Bruni in un campo, e di Andrea Cannavacciuolo (il padre di Antonino) nell’altro, Gianfranco dice: «Per me quella tra la pizza napoletana e Torna a Surriento è l’unione perfetta».
E infatti a Milano presenta una “Margherita dedicata a Sorrento” (o meglio, al Salernitano) realizzata con una mozzarella di bufala della zona vicina ai Monti Lattari – anche se lui in genere preferisce usare il fiordilatte in cottura, per non sottoporre la bufala allo stress delle alte temperature – e i pomodori San Marzano Dop spaccati a mano, leggermente marinati in olio e con appena un pizzico di sale. A completare, il tocco rinfrescante della clorofilla di basilico, per un assaggio indimenticabile che ha nella semplicità la sua grandezza «Per me la pizza napoletana deve avere soggetto, predicato e complemento, nulla più – dice Gianfranco – cioè al massimo tre ingredienti, e una grande farina. Poi naturalente sono fondamentali le fasi della maturazione e lievitazione, per garantire la digeribilità». Due momenti distinti e altrettanto importanti, ricordano Esposito e Iervolino.
In cosa sta l’innovazione del suo impasto? Nel mettere al centro la farina, anche con impasti molto idratati, al contrario della tradizione napoletana classica che, nei pesi, “parte” dall’acqua. Una scelta coraggiosa, nota Antimo Caputo – dell’omonimo molino campano –, perché gli impasti molto idratati sono più difficili da gestire e con una farina forte è necessario aggiungere molta acqua e far lievitare a lungo per ottenere un impasto leggero e saporito come quello presentato a Milano.
Iervolino studia le caratteristiche specifiche della farina, in particolare la forza e il contenuto di glutine, e calcola l’idratazione desiderata, aggiungendo alla farina, a caduta, acqua, sale e lievito nell’impastatrice a bracci tuffanti. In base alle materie prime usate, ma pure alle temperature esterne, fa “girare” più o meno a lungo. L’obiettivo è ottenere un impasto più digeribile e più sano, con un indice glicemico più basso e anche un contenuto di sale ridotto che aiuta pure a far venire meglio fuori l’odore di “pane” che rimanda alla memoria perché, conclude Iervolino, «Non dobbiamo vendere pizze, ma emozioni».
Prima però il pizzaiolo vesuviano ha voluto lanciare un appello ai produttori, e alla stampa che faccia da cassa di risonanza: adesso che sempre più colleghi scelgono la qualità (vivaddio, aggiungiamo noi) c’è il serio rischio che la produzione di eccellenze come i pomodori corbarini, del piennolo e San Marzano, l’olio extravergine e compagnia non sia sufficiente a coprire la domanda, tanto che lui è rimasto “scoperto” di San Marzano per diversi mesi. Sarebbe opportuno, dice Gianfranco, che si puntasse ad aumentare le quantità recuperando i campi abbandonati e creando lavoro. Il rischio invece, come sappiamo, è quello che finiscano inscatolati come San Marzano pomodori che tali non sono, e via dicendo.
Ciro Salvo e la scioglievolezza della pizza
Contrariamente a Gianfranco Iervolino, Ciro Salvo resta legato all’ortodossia della tradizione napoletana e parte dall’acqua nel calibrare gli ingredienti del suo impasto. L’alta idratazione caratterizza anche gli impasti – morbidi e digeribilissimi – del pizzaiolo di 50 Kalò che, però, non ama ragionare per percentuali; con buona pace dei Milanesi che sono abituati ai numeri, scherza Luciano Pignataro che introduce la lezione.
«Proprio perché tutti gli ingredienti vengono misurati in base all’acqua – spiega Ciro – preferisco partire dalla “base” di un litro d’acqua e calcolare poi le quantità di farina, sale e lievito in base a quello. L’uso della percentuale viene dal mondo della panificazione, ma dire che un impasto ha il 75% di idratazione vorrebbe dire fare dei calcoli all’inverso e mette in difficoltà i pizzaioli napoletani che lavorano in un altro modo».
Lui, quindi, usa all’incirca 1,5 kg di farina per litro d’acqua e nei periodi più freschi mette un po’ di sale in meno, facendo lievitare l’impasto un po’ di più. La cosa più difficile nella pizza napoletana, dice infatti il pizzaiolo, è avere un risultato costante: l’impasto non è standardizzabile e sono tante le varianti, dalla temperatura esterna fino al singolo lotto di farina. Per l’alta idratazione, ad esempio, servono farine forti che “reggano” maturazioni lunghe. Fino a qualche anno fa a Napoli si usavano farine deboli, perciò si era diffusa l’abitudine di stagliare i panetti solo poche ore prima della preparazione delle pizze. Oggi, anche grazie al lavoro dei molini come Caputo, che lavorando al fianco dei migliori pizzaioli hanno meso a punto farine specifiche per le loro esigenze di qualità, si ottengono panetti plastici – e non elastici, dunque che non si ritirano una volta stesi – dove la maglia glutinica è ben distesa: in questo modo i panetti, già formati, possono riposare anche fino a 20 ore e il risultato è un disco morbido, poco tenace al morso, e una pizza che, nel suo complesso, ha quella imprescindibile caratteristica di scioglievolezza dalla pizza napoletana oltre a essere super digeribile.
Proprio da questa morbidezza – necessaria per piegare la pizza “a libretta” secondo la tradizione partenopea, come ricorda Pignataro – viene l’uso dell’alta idratazione. E Ciro Salvo ricorda un antico detto napoletano che la dice lunga sulle preferenze dei napoletani: «pizza croccante, locale vacante», vale a dire vuoto.
Fondamentale per mantenere questa scioglievolezza anche la fase della cottura: la pizza napoletana cuoce a oltre 450 gradi, dai 40 ai 60 secondi: nessun altro prodotto cuoce così velocemente. Durante la cottura non deve evaporare troppa acqua, proprio per evitare l’effetto biscottato e far rimanere la pizza soffice. Sempre durante questi preziosi secondi, impasto e condimento si fondono arrivando a quel sapore complessivo che è – per usare una perifrasi olistica – superiore alla somma delle singole parti. La cottura rapida, aggiunge Salvo, permette agli ingredienti di restare “vivi” senza perdere del tutto le proprie caratteristiche, diventando un boccone unico e saporito. Torna al centro del discorso – come era già avvenuto poche settimane fa nel corso del convegno napoletano PizzaFormaMentis – la figura del fornaio, fondamentale per una buona pizza. Lo stesso Ciro ha lavorato per sette anni come fornaio nella pizzeria di famiglia, rubando nel frattempo con gli occhi i segreti del padre e degli zii pizzaioli, prima di riuscire a guadagnarsi (o meglio, a prendersi, come ricorda) il ruolo di pizzaiolo. «Tutti i grandi pizzaioli sono anche bravi fornai – dice – o meglio non dovrebbe esistere un pizzaiolo che non sa fare il fornaio».
Anhe in questo, conclude Pignataro, sta la grande modernità della pizza napoletana, che ben prima della moda delle “cucine a vista” veniva fatta davanti agli occhi degli avventori, con il fornaio di spalle e il pizzaiolo al banco.
Foto di Luciana Squadrilli
Lsdm a Milano 1- Pepe e Torrente
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