di Luciano Pignataro
Da vino mediatico a brutto anatroccolo di cui non parlare mai. E’ la metamorfosi del Patrimo, vino rosso dell’anno per la Guida dei Vini Gambero Slow Food nella vendemmia 2000 lanciato nel 1999 a centomila lire da Enzo Ercolino, allora patron dei Feudi di San Gregorio e protagonista incontrastato della scena vitivinicola regionale. Un vino spartiacque, perché segna l’ingresso in azienda di Riccardo Cotarella e l’abbandono di Luigi Moio che l’aveva seguita nei primi anni in collaborazione con Mario Ercolino, enologo di famiglia.
Per quelle “astuzie della ragione” attraverso cui si dipana lo spirito della Storia, entrambi gli enologi non ricorderanno con piacere il loro lavoro ai Feudi.
Ma non scomodiamo Hegel, diciamo che l’esordio del Patrimo fu clamoroso.
La vicenda del Patrimo fu divisoria tra le tribù del vino, quasi il segnale del passaggio da un’epoca all’altra.
In effetti, cosa ci faceva un merlot in Irpinia, perché l’azienda regionale più grande decise di puntare su un vitigno internazionale mentre tutta la Campania andava in senso inverso? Perché quella che poteva apparire una scorciatoia verso il successo alla fine è diventato un calvario enologico?
Se cerchiamo di contestualizzare la scelta di Enzo Ercolino, dobbiamo dire che fino a quel momento (1999) l’unico vino rosso campano che aveva avuto una risonanza internazionale era il Montevetrano, ottenuto da merlot e cabernet sauvignon oltre che da una punta di aglianico. La mano era la stessa: Riccardo Cotarella.
L’aglianico nelle sue diverse versioni stentava ad emergere in un mondo in cui un Tre Bicchieri era in grado di cambiare le sorti di un vino, anche di una azienda. Troppo ostico, difficile, nonostante l’introduzione della barrique da Caggiano nel 1994. Soprattutto troppo lontano dal modello di vino che si era affermato in quegli anni in cui si puntava su frutto, morbidezza, potenza alcolica.
“Un vino ottenuto da merlot è immediatamente comprensibile a livello internazionale – mi disse Ercolino quando gli chiesi i motivi della scelta – fa conoscere l’azienda e ci consente poi di far provare i nostri autoctoni”.
L’uscita e il successo del Patrimo segnarono anche la prima vera contrapposizione tra il mondo cartaceo e quello nascente del web. Franco Ziliani, con quello che rimane uno dei suoi articoli più spettacolari e meglio scritti, impallinò il vino dimostrando che il Patrimo non poteva essere un Irpinia Rosso Igt perché il merlot non era uva autorizzata in provincia di Avellino. La replica ufficiale fu che si trattava di una vigna classificata come aglianico per errore. Successivamente comunque la questione fu sanata e il merlot entrò a far parte delle uve autorizzate in provincia.
Patrimo divisorio di stili, di epoche, di enologi, di critici.
Di fatto la potenza del cartaceo era enorme, il 2000 fu vino dell’anno e le bottiglie vendute a centomila lire portarono 80 milioni di lire a fronte di un costo industriale non superiore alle 500mila lire. Non male come operazione commerciale. Ancora una volta Ercolino, genio del marketing, aveva fatto centro.
L’attacco alle Twin Towers però segnò il blocco del mercato americano e l’inizio della prima grande crisi del vino dopo quella della tragedia del metanolo del 1986. Il Patrimo, insieme ad altri rossi dai prezzi molto alti costruiti dal marketing, iniziò a soffrire prima sul mercato italiano e poi su quello estero. Cambia passo il mondo vitivinicolo, si affaccia la critica su internet, cambiano i gusti, i fatti danno ragione a chi ha seguito la linea dei vitigni autoctoni. Il Patrimo, dopo il successo fece qualche proselito, proprio in Irpinia Tenuta Ponte a Luogosano mise in commercio un merlot in purezza.
Inizia la vita carsica di questa etichetta, precipitata nell’oblio dall’azienda che cambia rotta portando alla direzione Antonio Capaldo e Pierpaolo Sirch dopo alcune scosse di assestamento. Viene impostata una politica low profile, e quella etichetta aveva finito per rappresentare, a torto o a ragione, la cattiva reputazione dei Feudi verso il mondo di internet, anno dopo anno sempre più forte e influente.
Nonostante ciò è sopravvissuta e, sull’esempio dei francesi, il tempo regala il dono di una sintesi comune a fronti contrapposti. Soprattutto perché, per questa come per tutte le altre etichette dei Feudi, si è ricominciato dall’agricoltura, quella vera, non raccontata.
Oggi il Patrimo nasce in cinque ettari coltivati proprio a ridosso della cantina di Sorbo Serpico e la verticale organizzata nella sede dei Feudi sintetizza tre epoche. Quella dello stile anni ’90, quella in cui fu preso a carico da Paully George tra il 2008 e il 2012, poi quella di Denis Dubourdieu con l’idea di passare dalla opulenza alla eleganza, alla freschezza. Una linea mantenuta anche dopo la scomparsa del grande enologo di Bordeaux avvenuta nel 2016.
Il merlot ha una acidità un po’ scarsa e il cambiamento climatico tende a penalizzarlo. Qui però siamo nella fredda Irpinia, a circa 500 metri di altezza, terreno argilloso. Le condizioni per avere un buon risultato non mancano.
Nel percorso enologico: macerazioni più brevi, sosta in legno di botti da 20 ettolitri non più di un anno, fermentazione alcolica in acciaio. La raccolta non supera i 60 quintali per ettaro. Malolattica acciaio e legno.
Oggi il Patrimo costa 50 euro franco cantina, viene prodotto in 6.000 bottiglie e ha un mercato di affezionati clienti all’estero che lo chiedono.
2015 *****
Ancora in itinere, ha bel profumo di frutta rossa, verticalità. Note di legno piacevole. Ancora in cerca di equilibrio. Si sentono i tannini e la freschezza sostenuta.
2014****.
Annata più fresca, esile, quasi sottile. In commercio da poco. C’è più equilibrio tra le diverse componenti
2013****
Ricco, equilibrato, tannino dolce e levigato. Ben sostenuto dalla freschezza, lungo, piacevole.
Tutt’altra la musica dei vini seguiti da Paully
2012 ***
Dal colore è più scuro, al naso note fumé, salamaoia, tabacco, meno pulito della 2013. Più sapidità, lungo, rustico.
2011 ***
Vino abbastanza potente, più ricco al palato che al naso. Beva popputa, fresca, piacevole, lunga.
2010 ****
Merlot piacevole, pieno, classico, bordolese. Beva piena e lunga. Al naso note di anice, note balsamica.
E adesso il vecchio stile anni ’90 italiano:
2006***
Old style, new style, dipende dai punti di vista. Ancora buono, con un buon fondo di freschezza. Si sente la tensione verso la concentrazione, lunga.
2005**
Note di stanchezza, tannino molto presente. Beva piacevole ma poco netta, poco pulita.
2004*
Il vino stanco anche se ancora piacevole e vivo. Pesa l’eccesso di sumaturazione, quasi cotto. Lungo e fresco, tutto sommato potabile.
2002***
Annata particolare, soprattutto per i rossi. In questa fase il vino si presenta vivo ma poco elastico, decisamente appesantito, coerente fra naso e palato.
CONCLUSIONI
Lo sforzo dei Feudi di puntare ad un vino più snello, fresco e moderno rendono sicuramente più interessante questo rosso configurando probabilmente una giusta chiave di lettura priva di riferimenti bordolesi o, peggio, caricaturali. Così come avviene anche per l’Aglianico, la nuova linea tende a far esprimere la frutta e in questa rotta il Merlot ritrova un suo perché costituendo una proposta decisamente diversa dagli altri rossi mentre, se ben ci pensiamo, stilisticamente era dal 2006 in giù molto simile ai Piano di Montevergine.
In vista della ventesima vendemmia cosa possiamo dire? Sicuramente l’azienda ha fatto bene a proteggere questa etichetta come proprio patrimonio storico che non si può rinnegare. Ma è altrettanto evidente che non può costituire, e di fatto non costituisce, un modello a cui ispirarsi in Campania e nel Sud come avvenne al suo trionfante esordio.
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