di Stefano Tesi
La cosiddetta cucina della memoria è un’arma a doppio taglio: ti fa cullare aspettative enormi per poi quasi sempre deluderle ferocemente, perché mai nulla di preparato “dopo” avrà lo stesso quid di un originale reso più appetitoso a prescindere, direi anzi quasi fantasmagorico, dall’impalpabile condimento di ricordi, nostalgie, situazioni e età dell’oro che non tornano più.
Insomma, riassaggiare a distanza di decenni i piatti della mamma, o della nonna o della fantesca della vostra infanzia, nella speranza di ritrovare quei sapori, è un’impresa quasi impossibile. Un po’ come quando, mezzo secolo dopo, vagheggi di reincontrare la già diafana compagna di scuola di cui eri innamorato a sedici anni e ti trovi di fronte una matrona acida e smemorata.
Questa è una delle ragioni per le quali di norma giro alla larga dalle rievocazioni gastronomiche, certo da prima che ne uscirò insoddisfatto.
Come per tutte le regole, però, ci sono le eccezioni. E sbagliare conduce talvolta a piacevoli sorprese.
La lunga premessa era necessaria per dire che, mercè la collega Francesca Pinochi (che ringrazio pubblicamente anche per le foto), qualche settimana fa a San Miniato Basso ho visitato un luogo dove da molto volevo andare: Lo Scalco, che si autopresenta come “enomacelleria”. Da più fonti avevo infatti appreso recensioni positive sulla qualità della carne, degli insaccati, del servizio e della cantina, ma volevo verificare di persona.
Tutto confermato: il posto è minuscolo, stile rustico ma curato, proprio sulla vecchia statale di fondovalle, come le osterie di una volta, con gestori svegli, parecchie bottiglie sparpagliate qua e là e da stappare senza troppe cerimonie, salumi di produzione propria davvero eccellenti (menzione speciale per una salsiccia fresca che era quasi – appunto! – al livello di quella di mia zia quando ero bambino).
Dunque stavo già per spiccare un giudizio positivo – nonostante fossi stato costretto, per ragioni climatiche dovute ai 40° all’ombra che c’erano fuori, a declinare l’invito ad assaggiare le carni “pisane di razza calvana – quando Maurizio Castaldi, il titolare, mi fa: “Ma nemmeno la braciola rifatta vuoi sentire?”.
Tuffo al cuore. Anzi, nella memoria più profonda: quelle estati al mare durante le quali, a pranzo (altro che un frutto e un’insalata) e ormai alle due suonate, l’indimenticata fantesca Lina ammanniva con simulata noncuranza a tutta la famiglia, ancora mezza incrostata di salsedine, la sua braciola rifatta. Una braciola, per i motivi detti sopra, di una ricchezza, un sapore, una consistenza, una maestria di preparazione da quotidianità domestica, inarrivabili.
Ecco. Sebbene fossi satollo, facesse un caldo bestiale e avessi pure fretta, obbedendo un po’ alla gola, un po’ alla curiosità e un po’ ai doveri di cortesia ho assaggiato quella propostami da Maurizio e la giornata ha svoltato: erano almeno trent’anni che non ritrovavo quella sensazione. Innanzitutto carne perfetta, saporita, cotta a puntino, cedevole a scaglie, quanto basta ad amalgamarsi immediatamente col resto del boccone, ma anche quanto basta a farsi ben percepire sotto i denti. Impanatura con quel filo di residua croccantezza, frutto probabilmente della giusta scelta di un pan grattato a grana media, sufficiente a fare da sapido diaframma tra carne e sugo. E un sugo corposo, con la giusta acidità del pomodoro a dare quel tocco di nota asprigna incentivante e necessaria alla salivazione, densità giusta, quindi né troppo liquido e né troppo denso, ergo fonte di inevitabile, indispensabile scarpetta.
Così è finita che abbiamo fatto tardi per contenderci tra commensali gli ultimi lacerti di braciola e non so come abbiamo fatto – eroici! – a resistere alle profferte tentatrici dell’oste di una seconda vassoiata di rinforzo.
Dall’aldilà Lina sorriderà compiaciuta.
Lo Scalco
Via Tosco Romagnola est 557
San Miniato (PI)
Tel. 0571 418764
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