Primo.
Questo è un libro che si deve leggere perché è sempre sbagliato il rifiuto aprioristico culturale, fosse anche il Diario di Max Laudadio o un salmo vespertino di fra Vincenzo Pagano da Velletri.
Secondo.
Dopo la lettura si dimentica facilmente, come una puntata di Desperate Housewives. Puff, ed è svanito. Ossia non ti resta niente tranne la frase ventriloqua “Io odio cucinare” declinata dall’indicativo al trapassato prossimo ogni cinque pagine.
Terzo.
Brillante operazione dell’Ufficio Stampa di Carlo Cracco, come mi ha fulminato semiserio l’amico Alberto Cauzzi:-))
In sintesi, l’autrice-giornalista fa uno stage nella cucina di un grande ristorante milanese e ne traccia un ritratto di prima un po’ sputtanante, a seconda botta assolutamente innocuo e infantile chiamandolo Vito Frolla.
Altra premessa: lei non è la cattiva e Cracco (lo chef in questione) non è il buono ( o viceversa, eh!). Sono due facce di una stessa medaglia, perché lo star system produce numerosi psicopatici che lo alimentano proprio con la loro frustrazione. Molti la reprimono, altri la trasformano in odio, pochi ci costruiscono il loro successo. Ilaria si iscrive abilmente a questo gruppo. O almeno è autorevolmente candidata dopo vari tentativi.
Perciò indignazioni e solidarietà stile fatwa non sono infatti ascrivibili a questo piccolo caso para-letterario che a me ricorda invece Porci con le Ali di Lidia Ravera e Marco Lombardo Radice che nel 1976 mise in subbuglio una intera generazione cresciuta nel mito del maschio di sinistra diverso da tutti gli altri, additandolo invece come eguale se non peggiore e soprattutto incapace di comprendere la radicalità del mutamento dei costumi nel privato.
Anche allora si parlò di nausea, disgusto, i due autori furono messi sulla graticola dalla critica ufficiale. Ma il racconto pornosoft senza trama fece furore e i due autori ci hanno campato per il resto della vita senza scrivere altro di significativo e memorabile. Un buon 45 giri come si diceva prima.
Per questo non serve a nulla criticare indignati anche perché il cliscé è lo stesso: cogliere le contraddizioni tra pubblico e privato di un fenomeno molto trendy e diffuso, allora la politica (sì, lo so che sembra incredibile agli under 45), adesso l’alta gastronomia. Un segnale, questo, della vitalità del settore, avremo sempre più libri e film dietro le quinte così come è già capitato con la moda.
Non a caso, badate, uno dei pochi posti di lavoro capaci di imporre volontariamente una vita di duri sacrifici e uno stile di caserma a trentenni e ventenni: come il calcio, la moda, appunto, e poche altre cose. E l’autrice sottolinea molto questo aspetto giocandoci in maniera populista e destrorsa, socchiudendo la porta ad accuse di “sfruttamento”, “nonnismo”. Il tema sottinteso? “Ecco cosa piace alla sinistra, ristoranti costosi dove c’è lo sfruttamento delle aspettative dei ragazzi”.
Non si tratta di un instant book, il progetto è premeditato con largo anticipo, da una giovane mamma free lance dotata di buona scrittura, esondante di fantasie sessuali piccolo-borghesi (ossia trasgressiva a parole e mai in prima persona salvo poi esibirti perbenisticamente come scudo rassicuranti e codificate appendici di figli e marito).
E, infine, certamente ricca dell’inventiva tipica di questa generazione trentenne di precari che arriva spesso ad esercitare il mestiere in modo più vero di quanto non lo siano i giornalisti professionisti prigionieri nelle redazioni.
A Ilaria capita così di intervistare una decina di personaggi famosi e li cita un po’ tutti nel libro come quando si deve presentare un curricula. Il prototipo classico del nuovo millennio creato dagli editori che hanno mandato in pensione inviati speciali e redattori di esperienza.
I suoi capitoli su Ducasse e sui critici sarebbero infatti banali pezzi ordinari in un quotidiano o in un settimanale (Pronto? Ho questo, vi interessa?), ma qui sono invece abilmente costruiti come cornice del racconto la cui essenza è il suo stage. Una cosa simile capitata due anni fa alla nostra Monica Piscitelli da Gennaro Esposito, la quale però non aveva l’arrembante ambizione di scriverne un libro con retroscena piccanti sputtanando chi l’aveva accolta.
Dunque Lo Chef è un dio mette il microfono in cucina e, come in tutti gli ambienti di lavoro, ne escono di cotte e di crude, è il caso di dirlo. Una sceneggiatura da telefilm americano ben sostenuta, soprattutto nella prima parte, da una scrittura fresca. Ma non troverete niente di trascendentale, anzi si conferma la maniacale cura del dettaglio di una grande cucina ben organizzata che in realtà rassicura chi si siede al tavolo dopo aver letto questo libro. Certo, si dicono un po’ di cattive parole e si fanno sgambetti. Oddio, Ciroooo….
In questa sorta di grigio reality si intrecciano appunto le interviste, ricordini personali di famiglia, la noiosa storia della sua amica con il solito turpe uomo sposato che, come l’acidità nel vino, rinfranca la beva di un libro che altrimenti si rischia di chiudere a un quarto per la pochezza di contenuti.
Il tonfo di stile di Ilaria è aver personalizzato i presunti sgarbi ricevuti, e questo le apre il fianco all’accusa di essersi voluta vendicare indebolendo oggettivamente la narrazione. Un po’ di immaturità, insomma. Si legge la voglia di farla pagare oltre che di raccontare.
In fondo le critiche a Cracco sono di essere troppo narciso, a Oldani di non averle dato credibilità perché, molto professionalmente, non ha voluto parlare del collega, e al sommelier Luca Gardini di essere malato di sesso. Capperi, vorrei vedere a quell’età se non ti svegli con gli ormoni a mille ogni mattina.
Insomma, niente di che.
Anzi, a uscire sputtanato forse è il solo Marchesi loquace e in pieno, solito, sbracamento da superego in dripping di pesce davanti alla prima venuta.
Altro elemento populistico del libro, stile Benedetta Parodi, è il penoso mestare nel sentimento di invidia sociale, anche questo tipico della piccola borghesia italiana, verso questi ristoranti dove i conti sono alti, sostenere quasi l’accusa che si tratta di un bluff nel quale non si dovrebbe cadere perché finti e pretenziosi.
L’incipit, ripetutamente ripetuto, è il non sapere cucinare, quasi un antidoto al veleno istillato nelle menti da parte di chi sfrutta la credulità della gente per ingrassare i propri conti.
E la piccola borghesia non deve saper cucinare perché è la base sociale di massa del fast food in ogni paese. La classe omologata per eccellenza, uguale in ogni dove.
Insomma, il gioco delle parti: sappiamo come l’alta ristorazione italiana sia quasi tutta a conduzione familiare, che la filiera gastronomica è uno dei fenomeni più importanti, uno dei pochi capaci di far muovere i giovani in giro per l’Europa, capace di salvaguardare l’agricoltura di qualità.
Anche l’autrice ne è in fondo ben consapevole quando riscrive il comunicato della Negroni 2009 sul fenomeno dei foodies: il gioco è fare a sponda non solo ai 4,5 milioni di appassionati censiti, ma anche rispetto a tutto il resto degli italiani di cui cerca di esprimere in qualche modo perplessità e luoghi comuni.
Molto abile, ad esempio quando dice che da diverse generazioni in casa non si cucina.
In questo Ilaria sta alla gastronomia come Berlusconi alle tasse. Costruisce la propria fortuna criticando quello su cui basa il suo successo.
Tutto qui? Yes, tutto qui, ma ben confezionato con quei furbastri di Feltrinelli che tentano di ripetere il colpo della Savelli.
Un libro che si presenta come contraltare al gastro system ma che in realtà, criticandoli, ne esalta i difetti con il destino di essere esso stesso parte del sistema fortificandolo e rassodandolo.
In fondo Ilaria ha bussato solo un po’ bruscamente alla sua porta, ora fa chic fare i duri perché non ci sono contenuti ma c’è posto per tutti: per lei, come altri che hanno fatto lo stesso.
Non c’è nulla di più permeabile al momento dell’enogastronomia: basta essere decisi, fare il muso duro e dire le cose con convinzione. L’approfondimento non è più cosa italiana, è roba vetusta.
Ed è questo lo scopo dell’autrice. Il colpo è andato a segno, senza neanche una rivelazione degna di nota o tale da cambiare un giudizio sui protagonisti.
Non è una inchiesta, non è un reality, non è un pamphlet, non è un racconto, non è uno studio: è esattamente quello che va di moda in Italia in questo momento, ossia chiacchiericcio non documentato, un salottino tv senza contenuti con l’ovvio e conseguenziale attacco a Carlo Petrini e a Slow Food.
Consiglio perciò a Cracco e Oldani di ringraziare l’autrice per aver dato loro questa possibilità, di non scatenare inutili crociate e suggerisco a Ilaria di usare il capitolo di Marchesi come introduzione per la ristampa. Aggiungendo almeno un paio di scopate in cucina.
Ilaria Bellantoni, Lo Chef è un Dio. Feltrinelli, pp.188 euro 13,50
Nota di lettura. Quando bisogna scrivere di qualcosa che si è letto, mangiato o bevuto conviene sempre ripetere due volte prima di mettersi all’opera e mai agire d’impulso, ché l’effetto studiato dall’autore è sempre la cosa appunto di cui non si deve tenere conto. Alla seconda lettura, ammesso che la terminiate, avrete la precisa sensazione di non aver speso bene i vostri soldi.
Ps: in arrivo per Ilaria un invito da Daria Bignardi e la recensione favorevole di Carlo Cambi
PPs: “Io odio cucinare” negli anni 60 è liberatoria per la donna costretta in casa, nel 2010 è analfabetismo culturale. Oggi chi “odia cucinare” odia anche il prossimo.
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