di Fabrizio Scarpato
Sciupio dello spirito nello sperpero della vergognaè la lussuria in atto, e nel suo attuarsi
essa è spergiura, assassina, spregevole, sanguinaria,
selvaggia, sfrenata, brutale, impietosa, infida. (…)
Tutto ciò sa bene il mondo, ma nessuno sa bene
come scansare il paradiso che porta a tale inferno.
(Shakespeare, Sonetto 129)
Ho camminato sulle acque, e non mi sento tanto bene. In effetti mettere i pattini e farsi scivolare sull’Isbanan ha un che di onnipotente e miracoloso. Una strada lucida di ghiaccio sul mare, levigata al punto da illuminare quel che resta del giorno, costretto tra troppe ore di buio. Ho pensato di andare a prendere un caffè sull’isola di Grasjälören attraversando la baia di Luleå: forse Gesù Cristo non me lo ha perdonato, non è stato comprensivo. E io ora sono molto confuso, anche se rilassato. Troppo rilassato.
Piacere di conoscervi, spero che indoviniate il mio nome…
Ritmo di samba incalzante giocato sul timpano: il charleston segue discreto e ossessivo.Forse pattinavo sculettando come Mick Jagger sul palco, ma ancora una volta quelle tre ragazze mi hanno raggiunto e superato. Oggi erano molto meno concentrate nello sforzo, anzi sembravano divertirsi e pattinavano in scioltezza. E ridevano. Senza staccarmi, questa volta: rallentavano, prendevano vento, facevano ghirigori, si abbracciavano, si baciavano, si chinavano, accovacciandosi, fino a tenersi le caviglie con le mani. No, non erano fasciate in tute aderenti, anzi indossavano cose di lana, morbide e confortevoli. Dai berretti col pon-pon uscivano riccioli di capelli: due erano bionde, una mora. Non so perché ma le ho immaginate tutte e tre sulle pelli d’orso della casa di Gammelstad, anche abbastanza svestite per la verità: un quadretto del quale mi sono subito vergognato. Poi una frenata, una giravolta, una staccata sulle lame e laggiù, in mezzo al mare, la ragazza mora mi fa: «Ciao».
Permettete che mi presenti, sono un uomo molto facoltoso e di gran classe…
Fuori si è alzata una tormenta di neve. Il camino della casa è acceso. «Ti piace la torta al cioccolato?» chiede la bionda, mentre la mora sbatte le uova. L’altra bionda l’abbiamo persa, sul mare. Non fa freddo, qui è primavera, i peschi sono in fiore, rosa, come lo Champagne che ci versiamo addosso, non foss’altro per bagnare quelle labbra rosse, sulle quali provare a morire. George Laval Rosé, che è melograno spremuto, roseo e acido d’intimità accartocciate, avvinghiate, forse ossigenate: qual è la bionda? Qual è la bruna? Meglio l’anidride carbonica, schiuma densa e fragrante che scende sul collo, o anche il fumo, del ghiaccio, secco, che picchia sui vetri nella tempesta, come piccole pietre aguzze. Facciamo una kladdkaka: l’idea mi piace subito, e ci glassiamo sotto una doccia di cioccolato caldo, anzi fondente, nero, mescolato al bianco del latte e al rosso dei camemori acerbi. Chi, chi, chi... s’alza il ritmo tra lampi di fuoco.
Mi viene il legittimo dubbio che un Laval Rosè possa avere qualche difficoltà con una torta al cioccolato. E non ci sto bene.
Spero abbiate indovinato il mio nome, ma ciò che vi rende perplessi è la natura del mio gioco…
«Ecco il vostro uomo dei dolci, non siate tesi per come appaio, non giudicate un libro dalla sua copertina…». Dalla porta improvvisamente spalancata, in una nuvola di gelo, fa il suo teatrale ingresso Krippnick Scrackalbott, l’altra ragazza bionda sottobraccio. Con gesto plateale si toglie il mantello e resta in guêpière, reggicalze e collant a rete. Come Frank-N-Furter è pesantemente truccato e subito mi pianta un tacco dodici con zeppa sul costato. «Tu sai chi sono io?». Chi, chi, chi... Le ragazze adoranti si fanno avanti in coro coi loro dolci al cioccolato… chi, chi, chi... «Sono un dio alla luce del giorno, ma di notte sono un diavolo di amante. Di giorno nobilito il sesso con la fantasia dell’eros, sublimandoli in amore: cos’altro sarebbe, d’altra parte, dare un senso alla fame, creando ricette da cucinare per voi? Io sono cuoco, io sono dio. Ma nell’oscurità mi piace terremotare le vostre certezze, saziare la vostra inconfessabile fame di sesso, liberando la strada all’immaginazione fine a se stessa, senza amore e senza cucina. E se non siete in grado di amare o cucinare, i problemi sono vostri: abbandonatevi al porno, mettete asparagi e fiori eduli nei vostri piatti, distillate salse policrome dense e lucenti e fatele scivolare goccia a goccia lungo petali di seta. Basta non avere rimpianti. Io sono dio e diavolo. Non abbiate paura, alla luce della notte tutto sembra giusto… Dov’è il bene? Dov’è il male? Sarò esattamente come mi vorrete. Chiamatemi Lucifero e abbiate un po’ di cortese attenzione nei miei confronti». Chi, chi, chi... Si volta ghignando verso le tre ragazze e prende ad assaggiare avidamente le loro dolci tentazioni, una ad una. Io resto in disparte ormai senza desiderio alcuno. «Voi due, toglietevi il grembiule, dovete lasciare la mia cucina… tu, invece, ragazza mora, sii gentile con me, e in soli sette giorni potrò fare di te un vero cuoco». Chi, chi, chi…Parte l’assolo di Keith Richards, e sono cazzi vostri.
Così se mi incontrate, usate tutta la vostra cortesia, oppure io trascinerò la vostra anima alla perdizione, yeah…
Ho come la necessità di gridare che la cioccolata mi sta stomacando, quando Kripp, intento a spolverare di cocco le chokladbollar della ragazza, mi guarda con gli occhi bistrati: «Vieni con me, Michelin. Vieni con me, sii cortese» e mi si avvicina languido con la bocca socchiusa, spettinandomi con una zaffata di alito sulfureo, prima di eruttare fuoco e fiamme, e sciogliere quel che restava del cioccolato appena glassato.
Chi, chi, chi… chi, chi, chi... è il telefono che squilla e mi rintrona la testa. Fatico a muovermi, anchilosato accanto al camino, seminudo, con una gamba che lambiva pericolosamente la cenere. «Buongiorno Gustave, sono Kripp. Tra un’ora la vengo a prendere, deve venire con me in un posto, molto bello, mi creda». Farfuglio qualcosa simile a un ”sì, va bene”: «Tra un’ora, dunque». Inciampo in un numero imprecisato di bottiglie di Champagne e nel piede di una donna, che dorme, avvolta nella pelle d’orso. Beggars Banquet è arrivato alla fine e chissà da quanto tempo il braccio del giradischi sbatte sconsolatamente a fondo corsa. Mi aggiro per la casa arruffandomi i capelli e grattandomi una specie di bruciatura che mi prude sul petto. Allo schienale di una sedia sono appesi un paio di pattini, per terra un cappello di lana col pon-pon, sul tavolo, posate maliziosamente su una mutandina di pizzo rossa, sei o sette chokladbollar ricoperte di scaglie di cocco. La ragazza si gira scostando quanto basta la coperta: sul coccige ha tatuata una fiamma tribale che punta vibrante e flessuosa verso la colonna vertebrale, mentre sulla scapola, tra ciocche spettinate di capelli neri, fa sberleffi una linguaccia rossa, il logo dei Rolling Stones. Non so nemmeno come si chiama. Mi affaccio ai vetri della finestra: ormai è venerdì mattina. La tempesta è finita.
GiovedìRolling Stones, Sympathy for the Devil, 1968
Georges Laval, Cumières Brut Rosé, Premier Cru