L’ispettore Michelin, la partita e il ricordo di una focaccia

Pubblicato in: TERZA PAGINA di Fabrizio Scarpato

di Fabrizio Scarpato

Il re è nudo, e sinceramente non ci fa una bella figura, ma ancora non lo sa.

Sono arrivato a Parigi a metà mattina con un solo caffè nello stomaco e qualche bicchierino di calvados in più. Ma solo perché fa un freddo cane. Il re ha bevuto e viene a rendere omaggio alla sua fève, una piccola formella impressa dell’immagine di un gelato da passeggio, cioccolato e vaniglia: sullo stecco c’è scritto Merthillon, Paris. Certo che il potere dà alla testa, anzi più che altro correda di una buona dose di faccia tosta, quel tanto necessario per presentarsi a una gentile signora bionda tenendo delicatamente tra le dita un piccolo gelato di ceramica, il trofeo di una confortevole e facile solitudine, ostentata in modo fanciullesco, come un ragazzino mostra l’ultimo paio di sneakers coi led. Rue Saint Louis en l’Ile è un budello stretto, chiuso tra palazzi bianchi dalle ringhiere arabescate di nero. I colori delle vetrine si riflettono sull’asfalto, bagnato dagli esiti della brina del mattino. Cammino in mezzo alla strada, lentamente: in certi casi le macchine devono sentirsi infimamente ed intimamente inferiori. Il sorriso della signora si confonde tra gli specchi e i lampi colorati della miriade di dolcetti e pasticcini ordinati a scacchiera sui vecchi banconi: “lei è un uomo… fortunato”, e quella pausa era già stata troppo lunga per i miei gusti. “Cioccolato e vaniglia è solo una delle fève che abbiamo proposto quest’anno, se le interessa abbiamo ancora qualche coffret con la serie completa”, dice con l’aria del finto entomologo che ti propone una visita alla scoperta della sua collezione di rarissime farfalle. Ringrazio, ma il mio regno, per quanto effimero e unico, me lo ero in qualche modo conquistato, mi bastava, e ora volevo solo gustarne a pieno tutte le sfumature, tutti i dolci privilegi: in effetti la tarte tatin era superba, mai però quanto le boules di gelato alla vaniglia e cioccolato fondente che l’accompagnavano, e anche il calvados invecchiato faceva la sua porca e commovente figura in quel piccolo cristallo finemente cesellato. Offre la maison, monsieur, i seni ormai debordanti oltre la cassa.

Mi piace l’Ile de Saint Louis, potresti non accorgerti di stare a Parigi, ma se soltanto ne hai percezione sarà bene venire fin qui per la fougasse della Boulangerie Bartin. Ho un debole per la focaccia, come la chiama mia madre: forse è la cosa che ancora le fa sentire vivo il ricordo del suo paese d’origine, in Liguria. Per il resto ha dimenticato tutto, se dio vuole. Questa non ha nulla a che spartire con le soffici nodosità delle mie focacce di bambino, soprattutto è priva di quella delicata untuosità che ti fa leccare distrattamente le dita.

E’ una focacciona alta e croccante, di forma indefinita: te la incartano ancora calda, magari farcita di spinaci e salame spagnolo. Il fagotto di carta, seppure attraverso lo zaino, riusciva a irradiare un confortevole calore alla mia schiena, ma portava con sè la controindicazione della fastidiosa, diffusa tendenza a trovarmi gente fra i piedi, alla fine non tanto per il mio innegabile fascino, quanto per gli inebrianti effluvi che si liberavano dal mio efficientissimo zaino. Ho affrontato la situazione con indifferenza ed eroico distacco lungo tutta la linea 13 del metro, fino al capolinea di Saint-Denis: allo Stade de France c’è il Sei Nazioni, c’è Francia – Italia. La vendetta va gustata fredda, e oggi i gradi sottozero sono addirittura otto.

Allo stadio mi siedo in una posto laterale, meglio se d’angolo rispetto alle scale, per avere accanto meno gente possibile, per avere aria intorno a me. Passo il tempo mangiando la mia faraonica fougasse, osservando, interpretando: disegno un mondo, che forse è solo mio, ma che ha una sua logica, una sua confortevole precisione. A ben vedere non cerco la solitudine, più semplicemente mi isolo, per vedere le cose da un punto di vista privilegiato, forse solo comodo, a volte codardo. Riempio il taccuino del mio isolamento con la fantasia, col cibo, coi ricordi. Ora per esempio ripenso a mio padre e alle domeniche allo stadio di Tolosa, al pane con l’omelette, alla focaccia di mia madre: lui chiacchierava con tutti, offriva a tutti, mi esortava a dividere la mia merenda con gli altri bambini. Soprattutto se c’erano le loro mamme. Bastardo. Quando segnavano una meta ero l’unico a non esultare, ancora oggi guardo le partite senza dire parola, senza mai alzarmi, tuttavia godendomele fino in fondo. Un cartello nel settore accanto dice “Rechauffez-nous”, riscaldateci: io ho la mia fiaschetta di calvados che mi tiene compagnia. Un bambino intabarrato si avvicina e mi guarda incuriosito mentre, come in quel film di Mary Poppins, tiro fuori ogni bendiddio dallo zaino: gli sorrido e non mi viene altro da dire che un goffo e sussurrato Allez les Bleus...

L’invito a riscaldarci non sembra aver commosso i quindici francesi: aspettano, alcuni guardano divertiti qualche piccione che s’attarda sul prato riscaldato. Gli italiani giocano, si sdrumano, rigiocano, cambiano lato: ondate mosce, lente, quasi impotenti, pur tuttavia percorse dal lodevole tentativo di inseguire un’idea di bellezza, perché il rugby è bello quando respira, quando si scioglie dai grumi, fino a mostrare inequivocabili scintille di grazia. Ed è una sorta di ossimoro, tanto più prezioso quanto più imbrattato di fango. Rougerie sembra Tintin nel film di Spielberg: ha la divisa d’un bianco immacolato e il ciuffo biondo un po’ troppo arioso a ricoprire un’incipiente calvizie. Trova un varco tra i due attoniti piloni azzurri, e con una falcata da quattrocentista arriva in meta a imbrattarsi finalmente la camicetta. Un gesto bellissimo, nitido: persino i piccioni si alzano in volo, non saprei se per ammirazione o spavento per quel tir che li ha sfiorati sbuffando a doppia velocità. Il giochino di infangarsi in tuffo riesce un altro paio di volte ai Bleus, persino con quel tanto di spocchia che nel rugby sfiora l’oltraggio: mi basta, soprattutto quando entra Morgan Parra con il culo dritto del bimbetto che va a scuola coi calzettoni bianchi e i mocassini ai piedi. Inadeguato.

“Michelin, perché non rispondi mai al telefono?” Non so perché accendo il telefonino solo quando sono a casa, quando non serve: agli altri, perché, se serve a me, lo accendo. Per poi spegnerlo, in una sorta di guerra d’indipendenza. Chissà quanti moccoli in spagnolo mi ha tirato Mariana. Alla fine, l’ultimo messaggio: “Vabbé Michelin, volevo solo dirti di comprare il giornale domattina… e anche di andartene beatamente a quel paese. Tvb”.

L’acronimo finale finisce con lo stendermi più degli effetti postumi e collaterali dell’ immane fougasse di Bartin. Mi resta solo Sébastien, per concludere in acido la giornata: “No, non ti ho detto che andavo a Parigi, ho pensato che te la saresti presa, che saresti stato male, sì sono una merda, ma ti voglio bene”. Abbassa lo sguardo, e io perfido: “Bella partita, però”. Ci scoliamo le ultime gocce di calvados: il poster s’è staccato da un angolo e pende mogio, con un filo di trasandatezza. Guardiamo assorti il muro scrostato della cella numero uno. Rechauffez-nous, rechauffez-moi.


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