di Fabrizio Scarpato”Specchio, specchio delle mie brame, chi è la più bella del reame?”.
L’ultimo caffè al Kulturens Hus: era venuto il momento di partire. Ho la testa che mi scoppia, ma potrei provare un certo sollievo, se solo riuscissi a capire o almeno allontanare la sensazione di essere stato usato. Spettatore neutrale, giudice al di sopra delle parti, comprimario invisibile, anonima carta da parati col giglio di Firenze. Me ne ero liberato di quella cazzo di carta, pensavo. E pensavo male. Scrackalbott era seduto accanto a me, e per la prima volta, ora che ci penso, sembrava finalmente se stesso, niente trucchi né giacche d’ordinanza: aveva una ruga, profonda, sulla fronte.
One, two, three, four… e parte il riff di organo, quello che ti batti le mani sulle cosce, senza immaginare che un assolo di batteria di oltre dieci minuti finirà con l’intossicarti di acido lattico gli avambracci. In A Gadda Da Vida era partita da chissà dove, e Kripp, sospirando come se un ricordo lo avesse sopraffatto, sussurrò, guardando nel buio davanti a sé: «Nel giardino dell’Eden…».
«Ha presente Biancaneve e i Sette Nani?». Mi andò di traverso lo Champagne. Non ci si poteva salutare senza un goccio. Harmonie sembrò a Kripp un bel modo per suggellare una settimana da incubo.
E adesso, in quella mattina senza luce, un qualche disegno di armonia e bellezza gli stava attraversando la mente contorta. Io mi limitavo a gioire per quel giallo dorato, una sfumatura solare che avevo una gran voglia di ritrovare, anche se suppongo si cogliesse non per qualche coincidenza astrale, ma piuttosto per l’apporto significativo di Pinot Noir nella cuvée, millesimata 2009. Per il resto, era un ottimo vino da colazione: dolcezza, crosta di pane, lievito, frutti rossi, caramello, fichi… e io mi stavo adattando benissimo, e se Franck Pascal avesse avuto qualcosa di ridire, non avrei fatto altro che augurargli una settimana come quella che avevo appena passato. Insomma, ero un po’ sulla corda. E se quello mi tira fuori Biancaneve, è ovvio che poi lo sputazzo ci scappa, con tante scuse al buon vecchio Franck.
«Diversi anni fa, capitai con amici in un villaggio, poco distante da Gammelstad. Era estate. Dietro la chiesa trovammo dei nani da giardino, buttati lì, come in una discarica, mezzi sgarrupati, ma sostanzialmente intatti. Non saprei dire se ci fossero tutti e sette, non ricordo. Anche perché chi si ricorda i Sette Nani? E non dico i nomi, ma proprio riconoscerli di persona… Fatto sta che li portammo nel bosco. Per salvarli. Da chi non saprei, perché non sapevamo come mai fossero stati buttati dietro la chiesa: una liberazione non prevede l’uccisione del prigioniero. Insomma li avevamo liberati noi, in modo più civile, a parte la responsabilità per l’infarto che si sarebbe beccato chi li avesse incontrati andando magari per mirtilli nel bosco». Era appena iniziato l’assolo di batteria degli Iron Butterfly e lo Champagne, con un filo di tannino e un cenno di balsamico, mi aiutava a pulirmi la bocca che cominciava a salivare fiele amaro. «Molti anni dopo, per caso ritornai al villaggio e davanti all’ingresso di una casa vedo Biancaneve, tutta linda, perfettamente dipinta. Cosa ci faceva Biancaneve senza i Sette Nani? Dubitando che fosse stata lei a volersi separare dai suoi piccoli amici, non restavano che due ipotesi: la prima che i padroni di casa avessero maturato un amore morboso nei suoi confronti a scapito dei nani, la seconda che i liberatori dei nani da giardino l’avessero lasciata lì apposta. Prigioniera, dimenticata, bistrattata, sola. E donna. In quel momento capii, e piansi».
Pensare a Krippnick Scrackalbott come alla Regina Grimilde della favola era abbastanza facile. Meno immediato che la vera Biancaneve, quella della vita reale, fosse sua sorella Birgitta, che poi sarebbe Babette. Entra l’organo, con un fraseggio che ricorda l’arte della fuga di Bach e più probabilmente quelle atmosfere di suspence di certi film di Dario Argento. «Era più brava di me. E’ sempre stata più brava di me. Già da bambina faceva i pepparkakor come nessuno.
Così accadde che da ragazzina le rubai le formine per fare i biscotti: c’era un piccolo concorso a scuola. Una vera stronzata, che non ho mai avuto coraggio di confessare. Niente, in confronto all’averla allontanata dall’uomo che amava, ingannandolo, facendolo cadere in una trappola di sesso e soldi con una cameriera, che io avevo istruito a dovere. Una professionista, diciamo. Si fecero trovare avvinghiati sul pass del Fiskaren Cat, peraltro anche poco vestiti. E così Birgitta se ne andò. E io mi presi ristorante e carriera. Il resto della storia la conosce».Adesso la batteria scandiva un ritmo tribale, tra lampi di sintetizzatore. Il bello è che questa testa di cazzo rimarginando le sue, di ferite, finiva col riaprire le mie. Eravamo due uomini devastati dal talento altrui. Per di più di persone cui volevamo bene. Attraversati da un dolore mentale, l’invidia, fatto di solitudine e violenza. Si può resistere, gonfiando il proprio ego, tanto che Narciso ci farebbe un baffo, e poi grattare il fondo, fino a scoprire una qualche traccia di qualità su cui far leva con ingordigia onnivora, come ha fatto Kripp. Oppure viverlo, quel dolore, blandendosi e abbracciandosi da soli, con grandi mani come in un quadro di Picasso o più prosaicamente in quella pubblicità di un digestivo: perché spesso ci sono buone e gratificanti ragioni per invidiare oggettivamente qualcuno, e la solitudine, il distacco che ne derivano, diventano condizione necessaria per imparare ad ascoltare. E ad ascoltarsi. Lo guardai, improvvisamente invecchiato ma sereno: forse pensava al suo piccolo paradiso di ghiaccio e neve che aveva saputo costruirsi lassù, mentre nell’aria riprendeva la litania di In A Gadda Da Vida.
Ancora un caffè e una busta: «Vorrei che Birgitta ci ripensasse e accettasse di prendere la guida del ristorante di Copenaghen. Ce la farebbe senza problemi. Sarà egoista da parte mia, ma è l’unico modo che ho per risarcirla. Farmi perdonare, non credo».S’era fatto giorno, per così dire, e Bloom abbaiò: era domenica, era ora di partire. Così lui da buon capomuta, chiamava a raccolta gli altri sette husky componenti il traino della slitta che mi avrebbe accompagnato all’aeroporto. Attraversammo di gran lena il mare, scivolando sulla parte ancora innevata, accanto al ghiaccio dell’Isbanan. Il vento in faccia mi cuciva gli occhi. Mi rannicchiai sotto le coperte pensando a Biancaneve-Babette: si può soffrire anche a essere oggetto di invidia, e perdere i sensi, addormentarsi al mondo, in attesa di un banalissimo principe. Basta una mela avvelenata per ritrovarsi soli. Rivedo quel suo sguardo affilato prima di partire: forse aveva dormito abbastanza, ma non mi ci vedevo in calzamaglia celeste.
Riaprii gli occhi una volta al caldo dell’aeroporto. «Ci sarebbe anche questa» e Kripp mi porge una scatola di legno, tremando, ne sono certo. Otto scomparti in cui riporre diverse forme per i pepparkakor, i biscotti di Natale. La renna, un omino, il cane, l’abete, un fiocco di neve, la casa, una stella. «Sono io, che resto quassù coi miei cani e la neve, il ristorante sarà la casa di Birgitta, se vorrà, e la stella Michelin, con lei in cucina, sarà solo un punto di partenza. Glielo racconti. Per favore». Le formine erano sette: l’ottava, il cuore, Kripp l’aveva gettata in mare dal Ponte di Örresund, dopo aver maciullato una scatola di pepparkakor dell’Ikea, quel giorno in cui il suo, di cuore, aveva detto basta.Ci abbracciammo, pur dandoci ancora del lei. In aereo mi sono seduto accanto al finestrino. Non riuscivo a pensare, tantomeno a vedere più in là del mio fottutissimo naso. Speravo solo che qualcuno, velocemente, facesse smettere il buio. Anche perché un solo, inconfondibile ed incoercibile pensiero mi attanagliava la gola: scolarmi il prima possibile una bottiglia di Calvados, di quello buono. In pochi minuti ci lasciammo dietro l’oscurità.
E quindi uscimmo a riveder il sole.
Domenica
Iron Butterfly, In-A-Gadda-Da-Vida, 1968
Franck Pascal, Harmonie, Blanc de Noirs, 2009, Extra Brut