di Fabrizio Scarpato
Ebbene sì, ho aperto un uffico anche qui a Gordes. Ovviamente è un bar, ovviamente si chiama Le Provençal, altrettanto ovviamente vado là a non fare un cazzo.
A dire il vero ho trovato un buon Calvados, l’allungo con qualche cubetto di ghiaccio e mi godo questa piccola piazza, quasi una terrazza coperta dai platani. C’è anche una fontana: i bambini ci sguazzano, la gente si rinfresca. Anche Sylvie, la cameriera del bar, ogni tanto va a spruzzarsi un po’ d’acqua sulla scollatura, e si asciuga con un fazzoletto di lino ricamato. Sembra Marion Cotillard in quel film di Ridley Scott, girato da queste parti, proprio a Chateau La Canorgue: quanto a Russel Crowe, a me mi fa una pippa. No, i titoli dei film non li ricordo, anzi nemmeno li guardo. Sylvie sì, la guardo, ed è un gran bel vedere.
Una mattina particolarmente calda stavo provando, devo dire con un certo impegno, un Gin Tonic con l’Hendrick’s: riflettevo su come le morbide note di cetriolo potessero influenzare l’equilibrio mondiale, quando una di quelle stronzissime macchine, nate forse per portare a pisciare i cani nel deserto del Nevada, risale sgommando la zona pedonale, fino a catapultarsi, con un ringhio sinistro, di sghimbescio, a cavallo della base della fontana. Un tipo la guidava con il braccio fuori dal finestrino, a penzoloni dall’ascella in giù: un braccio glabro, la mano verdognola, un pataccone al polso e al dito medio uno sconfortante anello con una pietra nera. La precisa sensazione che si trattasse di un coglione venne confermata quando dalla vettura scese Jean Luc Pulin in persona: Lacoste bianca col colletto all’insù, occhiali da sole fumé e foularino regimental d’ordinanza. E quella che era una sensazione si trasformò repentinamente in certezza.
Mi scusi se la disturbo: avrei necessità di parlare con lei: no grazie, un liquore di mattina no: un latte e menta: insomma io sono una persona per bene: questo ci tenevo a dirglielo: ho sempre agito nel massimo rispetto: sono animato da una grande passione: non ho nulla da nascondere: ai signori Picasso voglio bene e sono certo di essere ricambiato. Lo dicevano anche i romani che le scuse non richieste puzzano, ma a quel punto cominciavo a sentire l’odore del sangue e non fiatai, praticamente ignorandolo. E cominciò a perdere le staffe. Se non fosse stato per me: una ragazzina presuntuosa che s’è messa di traverso: il lavoro è una cosa seria: e poi diciamolo Marcel Picasso è sempre stato un buono a nulla: il mercato è un gioco duro, non adatto a un uomo malato: occorre abilità ed eleganza, classe e furbizia: converrà con me che qui, per dire, si gioca a calcio, mica ci si rotola nel fango a prender botte disperate come nel rugby.
Avevo già troppi indizi per fare una prova, a cominciare dal latte e menta, ma quest’ultima frase non la doveva dire, soprattutto perché la figurina di Chabal, quella nella pallina da spiaggia che ormai portavo sempre con me, s’era messa a singhiozzare, e quando Sébastien singhiozza è il preludio di un attacco d’ira monumentale. Allora mi sono alzato, ho preso schifiltosamente Jean Luc sotto braccio e l’ho accompagnato dietro il tronco di un grosso platano: “Pulin, due cose deve fare, ora e subito, che le conviene: la prima, scrivere una lettera di dimissioni da amministratore del Domaine Picasso, senza alcuna rivendicazione, magari specificando che la sua passione e la sua competenza la portano ad operare, che ne so, in Grecia o meglio ancora in Cile, faccia lei. La seconda, mi tolga subito dalla vista quella stronzissima macchina, che se non vedo la fontana dal mio tavolo mi inquieto. Ah, un’altra cosa…” lo afferro per il colletto della maglietta e gli piazzo una testata carogna e fulminea sul naso. Esce sangue: “così potrai capire quanto il rugby insegni a soffrire e insieme trovare un più appropriato impiego al tuo cazzo di fazzolettino”.
Chabal s’era tranquillizzato, io meno. Mi guardava però con uno sguardo interrogativo, per non dire di palese disapprovazione: quell’espressione un po’ così, al limite del fanciullesco, di quando era sbarbato e coi capelli corti. Un piccolo, trascurabile attimo di esitazione, un passaggio a vuoto emotivo, prima di indossare nuovamente la trucida maschera da Orco villoso, gli occhi iniettati di sangue. La cabrio sfrecciava fino al limitare degli Stagni, verso la Plaza de Toros: Bruce aveva provato ad attaccare Born in the USA, ma era stato subito zittito, spento.
Forse speravo che un fiore potesse nascere dal letame, che mi venisse in aiuto un qualche segnale di bellezza perso nell’orrore. Va da sé che l’unico orrendo pezzo di merda ero io, ma mi aggrappavo alla possibilità di un equilibrio che consentisse la coesistenza del bene e del male, che evidenziasse un intreccio virtuoso tra magnificenza e sporcizia. Magra consolazione, forse un alibi per il vuoto schifoso in cui mi trovavo, che ero sempre più scettico potesse regalarmi un qualche attimo di confortante bellezza. Da quella corrida non ebbi risposte: non ammirai la meraviglia del gesto, non riconobbi il coraggio, non vidi rispetto. Nemmeno la spietatezza della morte ha avuto la consolazione della velocità e della precisione nell’estoquada del matador. Nessuna musica, nessuna orejas: il mio viaggio alla ricerca di una complessità rivelatrice, si concluse in una sorta di espiazione nella pancia dell’arena, nella macelleria, tra odori freschi di carne morta e sangue caldo da calpestare, tra effluvi nauseanti di lisoformio e ricordi di brillantina. Eppure vorrei avere l’intoccabile sacralità dei grandi toreri, vorrei possedere la forza lucente e non rassegnata dei tori, vorrei esorcizzare il destino di entrambi in una danza fiera e sublime, in cui lo scintillio cangiante del traje de luces si fa lampo, nero e insanguinato, dentro il volteggiare di una muleta.
Era tempo di tornare a Honfleur, prima che fosse troppo tardi. Venne così una sera, poco prima della partenza, e una cena da consumare. “Madame ha precisato di farla accomodare nella sala invernale, quella color lavanda: sarà solo e avrà un tavolo davanti alla grande vetrata aperta sul giardino”. Ci mancavano anche i ricordi strappalacrime: così, fatte tutte le premesse sul rispetto del loro lavoro e tutto quello che volete, li mandai allegramente affanculo, che si tenessero ‘sti cavolo di teatrini, che li ringraziavo ma che volevo il mio tavolo d’angolo nella corte, all’aperto, accanto alla bouganville e appoggiato al muretto di pietra. Non fecero una piega, e mi apparecchiarono. Ostriche tiepide e Pancetta di maiale grigliata, con Purea di Ortiche, Cerfoglio, Perle di Osetra e Olio d’Oliva di Cucuron: il sussiego e la precisa descrizione del ragazzo rendevano giusto omaggio a un piatto fantastico, perfetto nei suoi contrasti, uno sballo succulento e fine al tempo stesso.
“Allora sei proprio guarito, anche se il caratteraccio non è affatto cambiato”. Non mi girai, forse nel timore di essere incenerito, forse per godere del vento profumato della sua presenza. Chiusi gli occhi un attimo, esausto. E arrivò accanto al tavolo: “Il Piccione delle Alpilles, però, lo mangiamo insieme”. Non la ricordavo così bella.