L’ispettore Michelin e la luce bianca del faro

Pubblicato in: TERZA PAGINA di Fabrizio Scarpato


di Fabrizio Scarpato

“Mi ha chiamato Jean Georges Vongerichten”. E chi é? Forse il visagista di Sex and the City, magari un lottatore di wrestling.

In ogni caso sono due pratiche che a Mariana calzerebbero come un guanto, così come è vero che la faccia di bronzo è la maschera che più mi si addice. “Michelin, non hai mai capito un tubo di cucina americana. E’ un cuoco, un grande cuoco, lavora a New York, manda avanti un sacco di ristoranti: mi ha offerto un periodo di studio e collaborazione nelle sue cucine. Un’occasione”. La guardavo: non stava più nella pelle, ma una sorta di pudore le imponeva un autocontrollo al confine col suicidio emotivo. Capivo che lo faceva per me: non voleva stendermi, eppure maramaldeggiava, e questo mi dava molto fastidio. Sapevo bene chi era Jean Georges e sapevo benissimo che Mariana aveva già deciso: non potevo dirle, però, che mi faceva piacere che se ne andasse, per lei e per me, che non vedevo l’ora di provare a vivere di momenti non previsti, di incontri intensi e sporadici, in cui riversare quel poco di amore di cui sono capace, nel modo ostinatamente anonimo che mi è proprio. “Michelin, io devo andare. E’ questione di qualche mese, in fondo. E poi ci sono gli aerei”.

Tutto quello che desideravo. Ma gli uomini si illudono di esser stronzi, quando in realtà sono semplici coglioni. Le verso un bicchiere di sidro e mi affaccio sul davanzale per recidere tre piccoli crisantemi bianchi, gli ultimi della stagione. “Assomigliano alle stelle Michelin: lo so che arriverai a tre. Questo è il mio regalo, così non ti dimenticherai di me”. Prendo il libro di una poetessa polacca che negli ultimi tempi porta sempre con sé e sfogliando a caso infilo un crisantemo in tre pagine diverse, e schiaccio. E con i fiori mandavo a quel paese tutto il resto, perché lei si raffredda, ormai sicura e gelida: “Non è questione di non dimenticare, ma di ricordare”. Così del mio amore pavido sarebbero rimasti tre fiorellini dispersi tra belle parole, ma aridi e rinsecchiti. Come il mio cuore.

Parto sempre volentieri per Quimper, certamente non per la semestrale riunione delle Gendarmerie delle regioni del nord, ma perché il Finistère mi mette alla prova, costringendoni anche fisicamente ad affacciarmi sul nulla, sul vuoto: una sfida in equilibrio instabile sul bordo dell’esistenza, entrare o uscire, abbracci o addii, ondate e risacca: né più né meno di quel che accade a un faro, e qui ce ne sono tanti. Le cose si mettono subito bene: un tipo azzimato, con una cravatta lenta e stretta, stròloga di tablet e smartphone e come disinvoltamente metterli in grado di rompere i camembert ad altri loro cuginetti sparsi da qualche parte, nel mondo. Io seguo in ultima fila, con addosso il mio vecchio maglione da marinaio bretone in lana grezza, ricordo del mio primo incarico a Douarnenez. Nella penombra della sala lampeggia la “enne” fosforescente delle scarpe del tizio, e questo sarebbe già stato un buon motivo per andarmene, ma al primo frullar d’ali di un petulante uccellino azzurro, ero già uscito, le palle che giravano a centoquaranta all’ora, per andare a trovare il mio amico Oursin. Lo chiamano così perché è un tipo scontroso, da trattare con cura, proprio come un riccio di mare: ci conosciamo da tanti anni e, nel silenzio, andiamo d’accordo. Noleggia barche a vela a Douarnenez e ne ha sempre pronta una per me.

Sono bravo in barca, anche se non sono bretone. Se nel rugby sono una vera schiappa, in mare mi trasformo, non fosse altro per vedere la terra da un altro punto di vista, per riuscire a strappare luci e colori inconsueti attraverso il riflesso del mare e del cielo: è l’unica prospettiva che inquadra la terra in una cornice blu, o grigia o nera, il mare sotto, il cielo sopra. Vale la pena, al tramonto, lasciarsi di fianco il faro e i ruderi della chiesa di Saint Mathieu, ti rinforza arrivare all’attracco all’Ile d’Ouessant, danno un senso all’esistenza il verde degli Aber o i rosa delle scogliere granitiche di Trégastel. Tutta roba mia, perché vado in barca da solo. Oggi c’è un bel vento da ovest, onda lunga e l’insopprimibile voglia di zuppa di astice, patate e ortaggi dal vecchio Barthélemy, al Bar des Pecheurs, all’Ile de Sein.

Mi toccherà sentirlo parlare e raccontare per tutta la notte di quando faceva il guardiano al faro di Ar-Men, di come ha imparato a cucinare, di come l’hanno cacciato dopo che, tanto per scherzare e rompere la monotonia del soggiorno, s’era nascosto dentro un armadio. Il suo compagno non s’era dato pace per un giorno, il cuore in gola, aggrappato alla ringhiera sulle onde: quando tornò fuori, Barthélemy rideva, e a quell’altro per poco non prese un coccolone, non prima di aver cercato di strangolarlo con le mani cotte dal sale. Me l’ha raccontato una decina di volte, forse già al faro parlava da solo per tenersi compagnia, forse è per la necessità di dare un senso alle piccole cose che intercala ogni gesto dicendo “anche questa è fatta”: poco male, parla lui, io sto zitto, accoccolato accanto al camino, fuori le staccionate turchesi a proteggere il giardino di ortensie, il cuore gonfio di soddisfazione.

Ci voglio fare un bordo, intorno all’Ar-Men. Per la prima volta entro nel Raz de Sein dritto di bolina, metto la poppa in faccia al faro di Tévennec e, orzando brutalmente, punto il faro de La Vieille per virargli davanti, col boma in orgasmo, sino a sfiorare con mure a dritta la Tourelle de la Plate. La Pointe du Raz è alle spalle, la prua dritta sull’Oceano. Non so perché ma penso a Mariana e a Chabal. Il vento all’improvviso si stufa di farmi divertire, cala e cambia direzione, regalandomi solo una brezza da nord-ovest: realizzo di non avere più tempo per doppiare l’Ar-Men e nemmeno per tornare verso il Raz. Tra poco calerà la marea e provarci sarebbe come tirare pugni a Cassius Clay mentre ti tiene a distanza col guantone sulla fronte. Guardo i riccioli di schiuma davanti a me, nel tratto di mare a occidente del Grande Faro dell’isola: sono le rocce di granito della Chaussée de Sein che a tratti affiorano sul pelo dell’acqua. Il buco ci sarebbe, ma non so se c’è il coraggio. Piccolo Ulisse del cazzo, hai oltrepassato le tue colonne d’Ercole, ma invece di virtute e conoscenza altro non ti resterà che qualche ennesima palata di merda. Poi sento una sorta di ruggito venire dal profondo della chiglia: in mare non sono mai solo perché con me c’è lei, la barca, che in qualche modo mi parla. Metto la prua contro vento, il genoa si affloscia sbattendo in un fremito, la randa si scarica in un gemito d’impazienza. E’ il segnale, il nitrito introverso del purosangue, il rantolo minaccioso del toro, lo sbuffare tumefatto del tallonatore prima della mischia: lei è pronta. On y va. 

Entro in porto sotto il faro di Men Brial, s’è alzata la bruma su uno specchio d’acqua quasi immobile. La barca scivola come per inerzia fino alla banchina. Barthélemy prende la cima senza dire parola e mi fa strada sino alla locanda, in un silenzio interrotto solo dalla sciabolata di luce del Grande Faro, ammesso che la luce possa fare rumore. Mi siedo inerme al tavolaccio d’angolo, il camino è spento, le ortensie irrimediabilmente secche. Ho freddo. Il vecchio guardiano si avvicina con la zuppa di homard e patate: nel silenzio nebbioso si diffonde il profumo uncinante del mare e dei molluschi, accarezzato dalla delicata ruvidezza delle cipolle e delle erbe di campo nate tra i muri in pietra dell’isola piatta. Stranamente non ho fame. Poi, d’improvviso, mi prende un nodo alla gola, e piango tutte le lacrime che non ho mai versato. Ripassa un altro taglio di luce bianca, irreale: sono definitivamente solo. Nessuno mi verrà a cercare, qui, oltre la fine della terra.

 

 


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