L’ispettore Michelin e la favola del re per un giorno

Pubblicato in: TERZA PAGINA di Fabrizio Scarpato

di Fabrizio Scarpato

La piantina di lavanda fa fatica ad acclimatarsi, in compenso alcuni crisantemi hanno ripreso a fiorire.

Era un po’ che non scendevo giù a fare due chiacchiere con Chabal: l’ho trovato con gli addominali leggermente scarichi e un filo giù di corda. Il Sei Nazioni è cominciato senza di lui e ci soffre. Benedetto ragazzo, un anno fa avete perso con l’Italia, dopo che tu giocasti un match inguardabile e ancora ti chiedi perché? No, dico, l’Italia, proprio l’Italia ci ha strapazzato, Parisse ti ha asfaltato, io mi sono incazzato, fattene una ragione e accetta il tempo che passa. Altrimenti lavora, cazzo, coltiva l’orco che è in te e forse un giorno torneranno a sbocciare i crisantemi. Deve aver capito male perché s’è intristito ancora di più e mi ha fatto compagnia tracannando un bicchiere di calvados: non era mai successo. Forse ho sbagliato qualcosa, ma in questi giorni la sensazione di ritrovare il filo di me stesso mi rende antipaticamente sfrontato, brutale. O solo pateticamente sopra le righe.

All’imbrunire la nebbia incombe sul Vieux Bassin, i ciotoli del selciato sono umidi e lucenti sotto i lampioni. Nel controluce intervallato dalle sciabolate luminose del faro all’entrata del bacino, alcune figure sembrano muovere verso di me. All’altezza del Chat qui Peche, inspiegabilmente deserto, la luce fioca contorna l’inconfondibile sagoma di un Babbo Natale. Non sono più un bambino, purtroppo, e il disincanto della mia stracca maturità mi consente di riconoscere il viso di monsieur Duclos, l’orologiaio. Dietro di lui monsieur Lassalle, il notaio, e poi ancora Pierre il panettiere e Francois il vecchio pescatore, e altri ancora: tutti vestiti da Babbo Natale. Li conosco uno a uno: “Francois, bravò, bella idea questa di Babbo Natale”, spesso le cazzate escono così, senza avvertire; “Santa Klaus” sibila lui tra i denti, “Saint Nicolas, non lo vedi?” ruggisce il vecchio Duclos. Mi fermo nella nebbia, impalato sotto l’occhio di bue di un fanale, resto muto mentre tutti i vecchietti mi passano accanto, urtandomi, sbattendomi, passandomi da parte a parte, quasi fossi un fantasma. In fondo alla banchina si fermano e si raggruppano: un improvviso sbatter di tacchi accompagna un minaccioso dietrofront. Ora mi guardano, una dozzina di barbe bianche e giubbe rosse muovono con passo cadenzato, gli stivaloni scricchiolano sinistri. Non so perché, ma mi viene da ridere.

La banda dei Babbi Natale affretta il passo: corrono, digrignano i denti, ma più si fanno minacciosi, più rido. Me li vedo quasi addosso quando dal nulla inforcano un manico di scopa e s’alzano in volo, sfiorandomi i capelli, su, oltre le nubi di nebbia, nel cielo stellato. Ci avevano già pensato Zavattini e De Sica in un film famoso: siamo al cinema? All’improvviso mi esce un grido strozzato di stupore, un moto fanciullesco del quale stranamente non mi vergogno. E rido, leggero, anche quando mi sfiora una bottiglia che si infrange poco lontano. Subito dopo altre bottiglie scoppiano a terra, spargendo odore e colore di vino. I Babbi Natale ce l’hanno con me, mi bombardano con bombe di vino. E’ vino del sud, riesco a vedere le etichette: mi sfiora una Blanquette, per poco non m’accoppa un Bandol, poco distante un Banyuls avrebbe meritato miglior sorte. Mi diverto un casino, questo è cinema davvero. Scanso le bombe correndo, mi riparo dove possibile, ma rido, come liberato, invulnerabile, finchè una boccia mi coglie alla sprovvista, la vedo è uno Chateauneuf du Pape, questa mi becca, mi rannicchio, è qui.

Mi sveglio in una pozza di sudore, accartocciato a cavalcioni del cuscino, col lenzuolo sulla testa. Sento Mariana che ride divertita: “Sembri la Befana, le gambette secche, il nasone…c’è tutto”. Avrei pensato più a Marty Feldman in quel film di Mel Brooks, anche perché non so chi cavolo sia la Befana, anche se me ne parlava mia madre, ma proprio perché aveva a che fare con l’Italia non mi scombicchierava per partito preso. E poi come sarebbe a dire le gambette secche? Mariana non mi conosce abbastanza e non sa che tra i miei pregi c’è certamente quello di essere solo un filo permaloso. Ma cosa vuoi dire a una donna, bella, che ti sta accanto nel letto vestita di una canottiera troppo larga di almeno un paio di misure? Niente, infatti. Ti ci appiccichi, tipo vinavil. “Domani parto”: i suoi occhi nei mei occhi, le sue dita sulla bocca, sssss… non dire niente.

Deglutisco, stanco, e niente dico, anche se chiudo gli occhi e stringo i pugni, forse per disappunto, forse per sollievo. Più probabile la seconda, perché mi viene da sorridere. Come nel sogno. Non mi dava pena tutto quel vino sprecato, non mi duole che lei porti via con sé la sua bellezza, se io mi sento più forte. Perché non ho paura di perderla. La guardo che si alza dal letto senza nulla addosso: se ne va, lasciandomi una canottiera finita appesa a un lampadario in un attimo di eccessivo trasporto. Il mio crudele egoismo ricaccia in gola ogni parola, ma credo di sentirmi felice.

Tre croissant alla crema, una spremuta d’arancia, un sidro e un caffè espresso. Babette si domandava cosa fosse successo, Annette, che mi conosce, mi ha portato la colazione al tavolo senza dire parola. Devo chiamare Routtier e raccontargli di una sensazione, anche se temo non riuscirò a farmi capire. Luoghi, sapori, colori non andrebbero sporcati, non ci sono gare se alla fine si ha a che fare con la curiosità dei bambini, con il bene comune della memoria, col senso della ricompensa, della felicità. Poco importa se i vestiti sono rossi o verdi, se si vola con le renne o su manici di scopa, se si appendono accanto al camino calze vuote o scarpe piene di carote, non importa come ci si chiama quando si fanno regali. Nelle mie scarpe da rugby, ieri, ho trovato un biglietto con scritto “ti amo”: Mariana, chi sei tu, tra tutti i portatori di doni?

C’è un sole pigro stamattina sulle planches di Deauville. Me ne sto sdraiato su una chaise longue, con un plaid blu sulle gambe: sul tavolino di legno bianco un bicchiere di Pommeau e una Galette des Rois. Mi ha appena chiamato Routtier: hanno fermato dei tipi di Nancy che avrebbero voluto imporre la festa di Saint Nicolas in barba a Babbo Natale. Ci sono riusciti gli americani con Halloween perché noi no, ha detto uno di loro. C’era anche un italiano che forse non aveva capito, o al contrario aveva capito benissimo, che al momento dell’arresto gridava “viva la Befana”. Questioni di quattrini, senza sapere che tutti parlavano della stessa cosa. Routtier mi fa: “Da uno a dieci quanto siamo stati bravi? Dieci, cazzo” e tira su col naso, forse pensando di aver esagerato.

Addento la torta e mi trovo tra i denti una piccola statuetta, une fève: sono re per un giorno. Mi aspetta il mio agnello pré salé e come è vero iddio mi ci bevo un rossissimo Chateauneuf du Pape La Crau, Vieux Télégraphe. Le roi boit, le roi boit! Fa freddo, mi tiro giù il berretto fino agli occhi, alzo il bavero del cappotto: mi si vede solo il naso, ovviamente, ma anche lui sta ridendo di felicità.

 


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