di Fabrizio Scarpato
“Madame s’è raccomandata di farla accomodare nel ristorante. Prego, le faccio strada”.
Mariana lo sa che essere al centro dell’attenzione, con tanto di nome e cognome, mi mette di cattivo umore. Sono sicuro che l’ha fatto apposta. Almeno scelgo io il tavolo, questa volta non d’angolo, ma nel bel mezzo della sala: l’angolo fa da focalizzatore, concentra la prospettiva, e non sono ancora così messo male da dare le spalle a tutti guardando il muro. Stare nel viavai del personale mi fa sentire più tranquillo, al centro del nulla. Tanto più che questa sala del ristorante ha pareti dipinte di rosso porpora e blu notte, mobili moderni e quadri d’arte contemporanea in abbondanza. Non mi piace il design, tantomeno esserne circondato quando mangio. Ho indossato una maglietta girocollo rossa e una giacca di cotone blu, sgualcita al punto giusto: perfettamente mimetizzato, sghignazzo alla faccia di madame, sollevato e finalmente anonimo, immerso nel leggero brusio che mi circonda.
Ride bene chi ride ultimo… quando il gioco si fa duro… Ecco, tanto per farmi capire, in genere io rido sempre troppo presto e sono mollo come un fico. Perdo sempre, insomma, e male, con una specie di resa incondizionata, quasi rassegnata, senza reagire. Accetto la sconfitta e non ricorro a mezzucci e scuse come quegli scolari che dicono cazzate e poi danno sulla voce al professore: proprio così, volevo dire, infatti. Volevo dire un tubo: zitto, alza il culo e cammina. E avrei voluto vedere, se dopo il paio di piatti che avevo ordinato dalla carta, vi si fosse avvicinato il sous chef cinese con un fuori carta dalla cucina, subito seguito dal sommelier con un Puligny Montrachet di Madame Leroy alla giusta temperatura. Ho appoggiato la schiena alla poltroncina e ho abbassato lo sguardo, sorridendo perplesso e felice, sì felice, come accade a chi si sente blandito da una inattesa e intima complicità: davanti a me la Vellutata di cocco, Foie gras, Gamberi di Sanremo e Gelato all’olio extravergine di oliva. Colpito e affondato.
La notte il cuscino amplificava a dismisura il battito accelerato del mio cuore, che non si dava pace dell’asfissia di un cervello rintronato da una semplice e banale domanda. Perché? Nel dormiveglia rimbalzavano le immagini deformate di un uomo rincretinito davanti a un magnetofono, il cuore devastato dal rumore assordante di un inconfondibile tacco dieci da ballo: tango, per la precisione. No, il tango no: un rivolo di sudore si stava tuffando dall’arcata sopraccigliare sinistra.Ci sono volute tre o quattro mignon del frigobar, un miscuglio micidiale di vodka, calvados, whisky e fernet branca per calmarmi e farmi prendere sonno, anche se col senno di poi ne avrei fatto volentieri a meno. Ho sognato infatti di nuotare disperato sott’acqua, ormai senza fiato, quando oltre la superficie vedo l’immagine tremolante di Mariana che mi chiama tendendomi la mano: riemergo annaspando, col cuore in gola, finalmente in salvo. Ma Mariana, vestita da cuoco, mi ricaccia giù col sorriso sulle labbra, fiocinandomi ripetutamente con un forchettone da arrosto e gridandomi addosso tutta la mia mediocrità.
Il triplo caffè, all’alba, in un giardino all’inglese punteggiato dall’ennesima lavanda, mi ha definitivamente svegliato e liberato dagli incubi, anche se il ritmo cardiaco non ne ha tratto particolare giovamento. Mi sento abbastanza su di giri e la prospettiva, sempre la stessa, della scelta tra non far niente e non fare un cazzo, mi fa eroicamente decidere di andare a fare una capatina a una rassegna vinicola a Chateauneuf: pochi chilometri decapottati, con Bruce sparato a palla lungo i saliscendi dell’altopiano, mi faranno sicuramente bene. L’ottimismo era scemato bruscamente dopo essermi sorbito una tombola di scalini per arrivare alla rocca: ansimando come una caffettiera mi chiedevo perché fossi arrivato sin là, mentre qualcuno, approfittando di un attimo di comprensibile disattenzione, proditoriamente mi appendeva un bicchiere al collo. L’effetto del caffè era ormai svanito e il ginocchio mi faceva abbastanza male da dissuadermi dal tornare immediatamente indietro.
Marchiato come un bue da un bicchiere che penzola al collo come un inutile campanaccio, mi anniento rincoglionito tra bottiglie e facce vignaiole, tra sorrisi di circostanza e risate ebbre, tra insopportabili comunelle e intollerabili riflessioni spocchiose. Cosa vuoi dire a quel signore coi baffi che lui già non sappia per esperienza? Cosa potrà dire a te il tipo vestito da bancario che rotea stancamente il suo bicchiere? Quella signora la conosco, il suo vino è prezioso, ma c’è il problema di distoglierla, o salvarla, da un gruppo di assaggiatori compagnoni che saltabeccano da un bicchiere all’altro. Chiuso a riccio nella solita inadeguatezza, vedo facce, incontro sguardi, altri occhi nemmeno riesco ad incrociarli, distolti come sono da altri discorsi, appesantiti da vacue saccenze, sfibrati da parole ripetute fino alla noia. Ci sono gli occhi liquidi e mobilissimi di un italiano che tocca bottiglie e bicchieri con gesti netti e precisi da artificiere subacqueo: è ligure, gioca eroicamente fuori casa, assaggio un suo vino da vitigni di qui, delle Cotes, e mi piace. “Belìn” gli dico annuendo e lui alzando leggermente il bicchiere mi risponde “Belìn” che in fondo vuol dire tutto, e basta e avanza. Ci sono gli occhi di quelli senza clienti, soli, seduti dietro le loro bottiglie, che si rimpiccioliscono in un angolo, infastiditi dal casino del tavolo accanto, eppure quasi timorosi che tu ti possa avvicinare col tuo cazzo di bicchiere a tracolla. Infatti me lo metto in tasca, per dirigermi in apnea verso l’uscita, verso l’aria. Una ragazza mi guarda dritto negli occhi: non posso fare a meno di voltarmi, solo per un istante.
La sera nella corte, tra tovaglie a quadretti bianchi e rossi, luminarie, rampicanti fiorite e vagoni di lavanda che ormai ha scassato ampiamente i camemberts, mi servono una Spalla d’agnello de la Crau al timo, Patate arrosto e Aglio in camicia. Per chissà quale percorso mentale immagino gli occhi di quell’agnello: mi fermo, guardo verso il giardino, accarezzando in punta di dita il bel bicchiere di sirah che ho davanti a me. Paura, quella ragazza aveva paura, forse chiedeva aiuto. Come d’improvviso una leggera eccitazione mi gonfia il petto, mi prende una specie d’impazienza di tornare a Chateauneuf. Va senza dire che l’agnello me lo sono tranquillamente spazzolato e con grande soddisfazione. Era buonissimo.