di Fabrizio Scarpato
«Ciurma! E’ pronta!».
Ormai l’avevamo persa, definitivamente. E pensare che fino a qualche tempo fa, perderla non avrebbe mosso più di un millimetro del pelo che mi ritrovo sullo stomaco. Invece mi toccava constatare che mia madre aveva di fatto tirato una riga sui suoi figli, sulla sua vita, sui suoi amori. Ecco, più che perderla, era lei che ormai aveva deciso di rimanere lì, che la sua vita futura sarebbe stata lì, e che mai più sarebbe tornata in Normandia. Nonostante Annette, nonostante me. Almeno in questo continuavamo a essere in disaccordo, e in quel momento in cui, affacciandosi dalla cucina, avvertiva tutti che il pranzo era pronto, io realizzavo che dovevo andarmene il prima possibile, che dovevo lasciarla andare, o meglio abbandonarla. Ma col fondato timore che il naufrago che stava affogando ormai privo di forze non era certo lei.
Mi sentivo ubriaco di luce, frastornato dagli spazi infiniti, tanto da desiderare il bianco e nero del Vieux Bassin, la mia casa, la mia normalità. Persino Chabal aveva bisogno di un po’ di nebbia, e se a entrambi non era bastata la solita comparsata anonima della Francia al Sei Nazioni, certamente era stato confortevole come un paio di babbucce l’ennesimo cucchiaio di legno di una sempre più improponibile Italia. Normalità, certezze. La stessa che mi restituiva il rettangolo del vecchio porto, o quelle arnie per le api, di cui la campagna che ci circondava era piena, che occhieggiavano qua e là, aggiungendo colore ai colori. Ho sempre identificato le api col miele, solo che il miele non mi piace, in nessun modo. Ma in quel momento una peculiarità delle api mi trapanava il cervello: che tornano sempre a casa. «Sono stati duri, questi ultimi tempi, vissuti in modo disordinato, gli uni contro gli altri…». Lavinia si avvicinò con la scusa di porgermi un bicchiere di vino, in realtà incuriosita dal mio interesse verso le arnie più vicine. «Eppure le api ci fanno capire che se c’è un senso nella vita di un uomo, non è solo provvedere al proprio bene personale, ma anche e soprattutto, col medesimo lavoro, con gli stessi gesti, contribuire al bene di altri esseri umani. Se vogliamo è anche un modo per definire la libertà…». Mi colse di sorpresa, anche perchè non la conoscevo: e subito pensai alle furenti parole di Elena, al claustrofobico sentimento di possesso e di chiusura che nel raptus di quella mattina mi aveva vomitato addosso. C’era della grazia in Lavinia.
Non so come avessero potuto preparare tutta quella roba dentro una piccola casa di tre metri per tre, ma sul tavolo di legno inchiavardato al terreno, apparecchiato con una tovaglia di plastica a fiori arancioni, forse gerbere, arrivò di tutto: una deliziosa pasta alla contadina con tagliatelle fatte in casa dalle donne, condita con cavolo nero, zucchine, patate e pinoli, poi qualche teglia di torta di riso salata, sia bianca che con verdure, acciughe marinate al limone o sott’olio con aglio e prezzemolo, focaccia al formaggio, focaccia al pesto, focaccia con melanzane e pomodori, focaccia senza niente, frittelle di baccalà, gattafin col prebugiun, mesciùa, fave e formaggio stagionato, burro di Brugnato, testa in cassetta, salame e mortadella nostrale e infine una straordinaria torta pasqualina, pasta sfoglia ripiena di biete e due, massimo tre uova disseminate qua e là.
Fortunato chi prende la fetta con l’uovo, che in qualche modo, se si vuol credere, ha un qualche effetto beneaugurante. Mentre stappavamo un congruo numero di bottiglie, rigorosamente Cinque Terre, va senza dire, fu proprio Lavinia che cacciò un urlo improvviso: aveva trovato l’uovo nella sua fetta. Forse sapeva dov’era, forse sarà stato il caso, fatto sta che deve esserle sembrato il momento giusto per dire a tutti che aspettava un bambino. Frida da buona svedese divenne rossa paonazza, mentre Enea si fermò solo un istante nel versare il vino, gesto in cui è maestro, ma qualcosa quella volta fece sì che ne versasse qualche goccia sulla tovaglia. Tra applausi, baci e abbracci, nessuno si accorse che Ascanio, il futuro padre, si era materializzato dalla campagna, esibendo un braccio interamente ricoperto di api, senza che ne avesse disturbo, come se quello, il braccio di Ascanio, fosse l’habitat naturale di quegli insetti, il loro alveare di riserva. Il ragazzo sorrideva sereno, Lavinia lo guardava innamorata, le api testimoniavano la loro felicità, fatta di semplicità e altruismo.
E io, da sotto l’albero di limoni, avrei voluto scappare, non tanto per sfuggire allo tsunami di miele che precipitava verso di me, quanto per una sorta di idiosincrasia nel condividere emozioni, perché non sono in grado di gioire pubblicamente, riservandomi qualche sprazzo di felicità quando si presenta inattesa, quando mi sorprende, possibilmente in un angolo buio, lontano da tutti. Forse anche per questo, in amore, sul più bello, ad appena un millimetro dalla felicità, succede che si insinua il tarlo della solitudine, l’alibi del ricominciare da capo, per essere di nuovo solo, e salvo, rispetto al rischio dell’esibizione di me stesso. Allora ho provato ipocritamente a punirmi: ho afferrato con le mani un limone e l’ho strappato dall’albero, e poi l’ho morso, con furia, fuori dalle righe, acido, nemmeno fossi Adamo nel paradiso terrestre.