di Fabrizio Scarpato
Al funerale di Achille non c’era nessuno, tranne i suoi nemici.
Succede, quando muori. Più facile che i tuoi avversari ti ricordino e in qualche modo rendano l’ultimo viaggio meno triste. Pioveva, quella mattina a Monterosso. Pioveva di una pioggia fine, nebulizzata,portata dal vento insieme agli spruzzi delle onde di un mare grigio e inquieto. Erano tutti all’imbarcadero dei battelli, la bara al centro della piccola piazza dal pavimento in mattonelle irregolari di ardesia, che era stato uno dei primi lavori portati a termine dall’imperatore.
Prese la parola Ettore, che in un’altra vita era stato un professore forse di chimica, e sapeva parlare davanti alla gente: «Io e Achille non s’andava d’accordo, anzi a dire il vero ci siamo detestati, e non abbiamo perso occasione di dircelo in faccia. Era una buona abitudine che avevamo sin da ragazzi. Perchè eravamo amici, con lui, Enea, la Sandra… Solo che allora ci mandavamo a quel paese per delle stupidate, non c’erano in ballo le nostre vite. Perché Achille è sempre stato un gran rompiballe, che era capace di insistere fino allo sfinimento pur di ottenere quello che voleva. Ricordo che non capiva niente di musica, faceva finta di seguire gli ultimi gruppi inglesi o americani, si riempiva la bocca coi Velvet Underground perché si ricordava della banana sulla copertina, ma in realtà a lui piacevano i Camaleonti.
E cercava sempre di mettere un loro disco, o sistematicamente strimpellava un paio di loro canzoni la sera davanti al fuoco, al Guvano. Lo chiamavamo Tonino, per via di una certa somiglianza col cantante dei Camaleonti. E lui si incazzava». Molti sorrisero, anche mia madre. «Un rompiballe. Ma visionario. Che non stava mai con le mani in mano, e a modo suo guardava avanti. Come quando decise di costruire una zattera per girare il Mediterraneo e portare in ogni dove il nome delle Cinque Terre, ”…e magari anche oltre l’Oceano!” diceva. Un giorno partì dal Guvano e naufragò miseramente davanti a Monterosso, in questo mare qui davanti a noi, e tornò a nuoto fino a Fegina, sotto il Gigante. Guarda te il destino. Io non ho mai pensato che Achille avrebbe effettivamente portato a conclusione i suoi progetti, certo ha commesso errori, certo ha iniziato delle scempiaggini, qualcuno un giorno ci dirà se realmente è stato coinvolto nei fatti di cui era stato accusato, certo ha permesso troppo, forse ha portato più soldi nelle tasche degli altri, quelli che oggi sono rimasti a casa, che nelle sue, ma, guardandoci intorno, non ha distrutto niente: oggi mi piace pensare che abbia continuato il suo sogno di far conoscere queste terre nel mondo. Perché era uno di qui, un po’ stronzo, ma uno di noi, uno di Manarola. E non meritava di finire così. Addio Achille, spero che ovunque tu sia avrai sempre qualcosa da sognare».
Alla fine della cerimonia una donna che fino ad allora si era tenuta in disparte, si avvicinò al feretro per deporre un fiore. Poi salutò le mogli di Ettore e Enea, e si fermò un istante al riparo di un ombrello arancione. Era una donna ancora molto bella, nonostante grandi occhiali scuri le coprissero il viso. Non ci volle molto a capire che era la vedova di Achille, la madre di Elena, da tempo divorziata, perché a un certo punto aveva preferito i tulipani alle vigne, la concretezza ai sogni sconclusionati del marito. Infatti era olandese, si chiamava Agnetha e se ne andò coi suoi pensieri così come era venuta, lasciando comunque negli occhi una incontestabile prova circa la trasmissione genetica dei caratteri ereditari, e finalmente una risposta alla domanda che mi attanagliava da tempo, e cioè da chi avesse preso, Elena, tutta la sua straordinaria bellezza.
Misteri della vita, nè più nè meno di quel sole che a un certo punto bucò le nuvole, con l’intenzione manifesta di allietare il pranzo che Enea aveva pensato di offrire tra i vigneti di Tara, la valle nei pressi di Riomaggiore, dove lavorava Ascanio, suo figlio. Arrivammo alla spicciolata davanti a un cancelletto da niente, su una curva a gomito lungo la strada che scendeva al paese, accolti dal profumo delle piante di timo e di rosmarino disseminate lungo un vialetto d’ingresso che conduceva a una piccola casa su due piani, contornata da una veranda di fatto sospesa sul mare infinito, che laggiù ancora brontolava, scuro e impenetrabile. Pensai che davvero certe volte il mare mette paura, non tanto quando è potenza devastante in burrasca, ma quando continua a muoversi ossessivamente, senza fermarsi mai, come se nascondesse a fatica misteri che potrebbero rivelarsi improvvisamente, come se custodisse segreti che non avresti voluto conoscere.
Come in un piano sequenza incontrai quasi tutti i presenti, senza soffermarmi più di tanto, desideroso soltanto di raggiungere un posto al riparo, in disparte, con la segreta speranza che si dimenticassero di me, lasciandomi magari in quell’angolo colmo di ginestre, subito prima del precipizio. Le due donne che discutevano ammirate di limoni e lentisco, saggiando con mano esperta la consistenza dei frutti, erano Anna e Frida le due amiche svedesi, mogli di Ettore e Enea: loro erano rimaste sulle Cinque Terre e avevano ripulito e recuperato alcune piane prima assediate dai rovi, sulla collina sovrastante Vernazza: coltivavano limoni, basilico e piante aromatiche, ed erano diventate produttrici di pesto, di origano e rosmarino, ma anche fornitrici di molte erbe per profumare saponi, oli, creme e tutto quanto aveva a che fare con quelle cose lì del benessere, insomma. Sembravano amiche. Salutai poi mia madre che era in cucina, ormai irriconoscibile, persino abbronzata, i capelli raccolti con il nodo di un fazzoletto arancione, e salutai Ettore che mi abbracciò forte, e Enea che fece semplicemente un sorriso. Non dissi nulla a Glauco, il padre di Paride, che se ne stava assorto su uno scalino, forse vagheggiando una qualche figura di figliol prodigo da inserire nel suo presepe. Poi vidi una ragazza che descriveva con passione a Pénèlope, c’era anche lei, alcuni cespugli intorno alla casa e così sentii parlare per la prima volta di euforbia e di achillea, e al tempo stesso conobbi lei, Lavinia, la compagna di Ascanio, il padrone di casa. Il quale era nelle vigne, piantate su tappeti di fiori tra i quali facevano capolino i primi papaveri, a gesticolare con due giovani di colore che tutti chiamavano Tom e Jerry, per il semplice fatto che i loro veri nomi erano impronunciabili, come inusuale il loro modo di esprimersi: una sola cosa dicevano quando li avvicinavi incuriosito ”noi maestra muretta secca…” e lo erano davvero, chissà come, chissà perché. Erano lì, accanto a un muretto su cui stavano crescendo piantine di capperi, di cui Ascanio andava orgoglioso ”perché nascono sui muri, tra i sassi, libere su muri che invece di dividere, tengono insieme, la terra e le persone, anche così diverse come Tom e Jerry”: una specie di miracolo, come lo era quella sua vigna, parecchie piane verdi strappate alla roccia e alle grotte, anch’esse in fondo un giardino, nato sulla roccia della vallata. Poi l’occhio si perdeva nello strapiombo, fino ai nuovi filari laggiù in fondo, quasi sul mare. «Un giorno, alla vendemmia, porteremo via l’uva con le barche, te lo assicuro. Vuoi venire giù?» disse Ascanio. «No, grazie, ho già dato…» risposi atterrito al solo pensiero di prendere di nuovo uno di quei tremendi trenini. E lo guardai partire zigzagando tra cespugli di erica e grandi piante di lavanda, lo vidi sfiorare pericolosamente bellissimi fichi d’india e aggirare agavi filiformi, finché, quasi all’altezza di una palma, finita lì anche lei chissà come e perchè, persi definitivamente di vista il trenino, che con uno stridente sferragliare della cremagliera, venne inghiottito tra le foglie di bosco, di albarola, picabun, marsanne, rossese bianco e un’infinità di altri vitigni che quel ragazzo aveva voluto impiantare, ”perché c’erano molto prima di noi”, e non voleva fossero dimenticati. Finalmente raggiunsi una sedia pieghevole, subito accanto a un albero di limoni, vicina a un fico d’india e alle fauci di un coccodrillo di ferro che mi guardava da appeso al muro. Alle spalle un pennone di fortuna su cui sventolava l’immancabile bandiera nera dei pirati.
Fu in quel momento che come abbagliato da tanta bellezza, incurante, anzi intimorito dal sole di mezzogiorno che ormai aveva avuto il sopravvento sulle nuvole, provai un profondo senso di disagio, un groppo in gola di vergogna e un desiderio impellente di fuggire lontano, di tornarmene via, di non essere lì. Non meritavo tutto questo.