L’Ispettore Michelin / Cinque Terre – XV. Buio

Pubblicato in: TERZA PAGINA di Fabrizio Scarpato
Precipizio sul mare di Monesteroli

di Fabrizio Scarpato

Mi chiamo Gustave Michelin. Gustavo, detto da lei, non mi piaceva.

Eccessi di una donna disperata, della quale io, e sottolineo io, non ero mai stato innamorato. La guardai solo leggermente infastidito per quello sguardo minaccioso e per una sorta di incupimento, di trasandatezza del gesto, che minacciava la sua ancora evidente bellezza. Mi raschiai un attimo la gola e accennai: «E Paride?».

Lei, come se nulla fosse stato, nemmeno fosse a un tè con le amiche, riprese a guardare il mare e continuò: «Paride non l’ha presa bene. E’ un debole, rispetto a te pensa che le cose, se sono importanti, in qualche modo te lo fanno sapere, restano nella rete del setaccio della vita. Più che fatalista è disattento e perde le piccole cose, quelle magari insignificanti che il setaccio non trattiene, ma che potrebbero essere preziose. Svagatezze che svuotano la vita. Così all’inizio anche lui ti ha sottovalutato, accorgendosi troppo tardi che stava per essere travolto. Come mio padre, d’altra parte, che di te non aveva capito niente. Mi chiamò quella sera perché cercassi di convincerti a mollare la presa, per ottenere una qualche proroga, intavolare uno straccio di trattativa. ”Sono tuo padre, mi odi, ma me lo devi” disse. Paride era con me e si vedeva che era nervoso per essere di fatto inutile, al momento. Litigammo e volarono parole grosse, tali che Paride tentò un vano e tardivo sussulto, prendendo le mie difese, all’inizio a parole. ”Stai zitto te, che non conti una sega!” gli rinfacciò mio padre spostandolo con il braccio, come per metterlo da parte. E lui lo agguantò per il collo e strinse forte, e una volta caduto per terra, gli montò addosso, nello studio, alla torretta. Io non feci nulla, non ho gridato, non ho detto niente, che anzi la voce mi era rimasta intrappolata in chissà quale anfratto della gola. Non mossi un dito. Lo guardai morire, senza provare nulla, senza sentimento alcuno, a parte un sottile piacere. Col buio della notte l’abbiamo trascinato fino al Gigante e l’abbiamo appeso lì, con quell’osceno lenzuolo stampato con immagini delle Cinque Terre, robaccia per turisti che a lui piaceva tanto. Paride non se l’è sentita di cacciarlo giù, e l’ha calato, di fatto facendogli un funerale pietoso. Così finivano le sue manie di grandezza, appeso a una statua enorme, che era stato un delirio di arroganza, mutilata e semidistrutta, abbandonata dal tempo e dagli uomini».

Continuammo entrambi a guardare il mare, fissandolo senza un punto preciso, come se i pensieri potessero srotolarsi meglio, senza l’interferenza di uno sguardo: «Forse la voce era sparita perché Achille ti aveva buttato fuori da tutto, dal Parco e dalle case…» dissi azzardando una sensazione che risaliva a quel giorno a Manarola, quando arrivò trafelata in officina trovandomi faccia a faccia con Paride. E ancora una volta mi guardò, una sciabolata affilata negli occhi e un’espressione di livore furioso, forse la stessa che aveva manifestato quella sera, davanti alla morte di suo padre.

«Bisogna chiudere tutto, bisogna distruggere tutto: strade, ponti, moli… Lasciateci soli, devono lasciarci soli. Non abbiamo paura. Questa gente ha saputo costruire case aggrappate agli scogli e inventare strade spaccando la roccia: ce la faranno da soli, se ancora è rimasta una stilla di sangue dei  padri, e dei padri dei padri, nelle loro vene. A cosa servono i bed & breakfast? Liberiamoci dai bed & breakfast  e restituiamo le case a chi lavora le vigne, ai contadini, ai marinai, alle famiglie. Ormai le case sono vuote, abitate ogni settimana da persone diverse: non c’è più vita, non ci sono le voci che rimbalzano nei caruggi, dietro i panni stesi, sotto le volte di pietra delle cantine che odorano di legno, nafta e acido succinico: ”Nini cum’i stè… Alòa cum’a l’è…”. Nessuno si saluta più, perché nessuno conosce il vicino. Hai mai visto l’intrico di scale, anfratti e portoni al di là delle vie maestre? Il turismo ci ucciderà, è come un virus che ha infettato la gente. Fino a cinquant’anni fa qui vivevano lontani da tutto, diversi ritmi, altre faccende, altra fatica: la gente era come una tribù nella giungla, separata dal mondo. Poi le strade, le macchine, i foresti, dapprima qualche contaminazione, poi un’epidemia: coca-cola, panini e birrette, dove c’erano vino bianco, focaccia e acciughe. Il virus ha aggredito gente indifesa, che non aveva anticorpi per fronteggiare quella maledizione e mettersi in salvo. E tutto è crollato. Distruggeteli tutti i bed & breakfast. Mio padre voleva illuminare tutto a giorno, ogni giorno e ogni notte. Senza amore. Ora ha il buio che gli spetta; quanto alla luce, metterò i suoi schifosi occhiali da sole nella bara».

Mi voltai a guardarla, per vedere che faccia avesse: nulla, imperterrita. Poi d’improvviso si raddolcì: «Non c’è più amore per la terra, non c’è più amore per niente». «Nemmeno Ettore?» chiesi come per arginare quello sfogo sconclusionato. «Ettore ama la sua terra, ma di un amore altruista, inclusivo, condiviso» e si voltò ancora, fulminandomi con gli occhi, forse perché nel suo estremo tentativo suo padre l’aveva messa al corrente del ricatto con cui aveva coinvolto mia madre. «E non serve, se prima non hai raso al suolo tutto».

La accompagnai alla strada, dove ci aspettavano i carabinieri. Risalendo le ho accarezzato i capelli. S’era fatta piccina piccina, come se l’attacco paranoico l’avesse destrutturata in un corpo amorfo, un burattino senza fili, sconvolgendo l’armonia della sua bellezza, anzi confermando che non c’è bellezza se non c’è anima. Prima di entrare in macchina gridò:

«Devi dire a tutti di ricominciare, se no la terra si vendicherà. E farà buio. Buio»

Mi sono preso del tempo, sono tornato indietro e ho infilato il sentiero per Monesteroli finché non sono arrivato alla scalinata. Mi sono buttato giù a precipizio, scalino dopo scalino, i miei talloni rimbombavano come le mie tempie, come il fiato sulla lingua, come il mare nei miei polmoni, come la luce nei miei occhi, come la bellezza nel respiro. Poi mi sono fermato, e su una curva a angolo retto a strapiombo sul mare, ho allargato le braccia nel blu, sospeso come Jack Nicholson in quel film di Antonioni, e ho urlato forte a squarciagola, finché il cuore non ha ritrovato il ritmo del suo battito. Mi sono sorpreso appoggiato a un muro, inopinatamente e incredibilmente arancione, intatto, tirato come appena fatto: sotto i miei piedi gli scalini centenari, schiodati, dissestati e dissennati, di una scalinata senza la quale quel muro di quel colore inaudito non sarebbe stato ristrutturato, ricostruito. Un contrasto virtuoso, un lampo di vita, una ragione sufficiente perché potessi intraprendere la salita senza la paura di mangiarmi il cuore.

Alla sera Enea mi ha fatto sedere e ha portato una bottiglia di Calvados. Si è seduto con me, ha versato un bicchiere per me e uno per lui. Senza ghiaccio, liscio, che già faceva troppo freddo. Poi s’è alzato e se ne è andato, senza dire parola. Non ho finito la bottiglia perché ormai era ora dell’ultimo treno per Manarola. Questa volta ho preferito prenderlo a Framura, perché non mi andava di passare attraverso il tunnel senza poter vedere il mare e la luce del sole, perchè non avrei potuto sopportare di restare al buio.


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