L’Ispettore Michelin / Cinque Terre – XIV. Elena

Pubblicato in: TERZA PAGINA di Fabrizio Scarpato
Nostra Signora degli Angeli Custodi, Fossola

di Fabrizio Scarpato
In fondo era bastata una lenta passeggiata nel tunnel da Bonassola a Framura, per mettere insieme quel possibile quadro. Tuttavia mi ero fermato spesso, negli spiazzi alla luce del sole, per provare a capire chi fosse protagonista e chi no in quella vicenda, e se c’era stata premeditazione o una feroce casualità.

Al Re Pescatore trovai Enea stranamente affacciato al balcone, pensieroso. Non mi interessava che lui sapesse o addirittura avesse sempre saputo, ma era inevitabile lo guardassi con occhi diversi. Cercai di allontanare il pensiero, sicuro che avrebbe potuto privarmi del controllo, quantomeno procurarmi crisi di panico come quella che avevo passato a Riomaggiore. Non volevo entrare in quel tombino senza uscita che sarebbe stato cercar di capire a tutti i costi chi potesse essere mio padre tra Ettore e Enea, anche perché Robert sarebbe stato svantaggiato, vista la sua assenza. Chabal, dalla tasca, si era messo in piedi, gambe larghe e braccia conserte, la grinta truce degli anni belli: come dire ”io sono qui, puoi contare su di me”. Ecco a cosa servono gli amici, anche se di cartone. Riuscii a immaginare una vita migliore con tre padri, ché uno solo, peraltro stronzo, in fondo era condizione comune ai più. Sorrisi, constatando come avessi il naso e i capelli di Robert, il fisico di Ettore e il carattere taciturno e fumantino di Enea: e la cosa mi sembrò abbastanza definitiva, nel senso che in fondo ero rimasto senza padre a dodici anni, e ora, a quaranta passati, trovarmene tre non modificava di una virgola quello che ero, anzi, alla fine mi riempiva l’esistenza.

E poi la mia vita era scandita dalle donne, e ora che ci pensavo finalmente il mio sotterraneo fastidio per il talento femminile, la mia riluttanza di fronte a legami soffocanti, la mia attrazione per la solitudine, forse trovavano una spiegazione nel timore di essere dannatamente stronzo, come l’unico uomo adulto che avevo avuto per casa. Certi dettagli in effetti mi dicevano che in quanto a stronzaggine, non potevo che essere figlio di Robert, ma al tempo stesso rilanciavano qualcosa che nei giorni precedenti era sempre rimasto in sottofondo: una insana voglia di casa, di far niente. Il problema era che tutto questo aveva le sembianze dolci di Pénélope. Ma ancora riuscivo a incazzarmi al solo pensiero. Per fortuna Enea mi aveva preparato gli spaghetti coi muscoli della Palmaria e un bicchiere di vino di Tramonti, nato nei terrazzamenti più estremi della denominazione Cinque Terre. Fu in quel momento che mi disse: «Ti piacciono? Però… te la cavi bene con la forchetta» dandomi per la prima volta del tu e mettendo in fila abbastanza parole da considerare il tutto un vero avvenimento. Ma lì, su due piedi, nemmeno me ne accorsi, perché alla parola Tramonti capii cosa fare, convinto che spesso le persone, per amore, sanno accettare il proprio destino, qualunque esso sia. E non mi riferivo a Enea, che snobbai bellamente, buttandomi a tuffo sugli spaghetti: il che, ora che ci penso, già significava che ero sulla via della guarigione

Ulisse invece il proprio destino non aveva certo alcuna intenzione di accettarlo: infatti se l’era data a gambe, o meglio era scappato su chissà quale delle sue barche in mezzo al Mediterraneo. Poco male, ci fossero voluti anche dieci anni, prima o poi, in qualche porto o in qualche isola l’avrebbero preso. Ma Elena no, lei non sarebbe scappata, non era scappata.

C’era un solo posto in cui Elena aveva fatto coincidere l’amore per la sua terra e i propri sogni di ragazza, quando forse quella visione unitaria era ancora possibile, prima che qualcosa spostasse drammaticamente la bilancia da una parte, relegando i sogni in un cassetto e trasformando quello che poteva essere amore e passione in una sorta di sorda ossessione.

Mi avventurai tra le case di Fossola attraverso una scalinata non ancora troppo ripida, comunque tale da consentire di respirare lo spazio immenso che avevo davanti: quasi una necessità, quella di fermarsi, come colti da una specie di ebbrezza nel riflesso abbacinante che il sole del primo mattino provocava sullo specchio infinito del mare, che laggiù all’orizzonte si confondeva col cielo, in una specie di sipario uniforme, tutto giocato sui toni del blu. La piccola chiesa di Nostra Signora degli Angeli Custodi si trova su uno stretto tornante, in cui la scalinata, che in quel punto si allarga in gradoni pietrosi più dolci, lascia spazio a un piccolo sagrato, ornato di qualche pianta di rose, e a due sedute direttamente ricavate dalla facciata della chiesa. Da sfondo, il mare assoluto, qualche vigna e la punta, fitta di macchia, di Monesteroli. Elena era lì, seduta con le spalle appoggiate al muro, il capo rivolto verso il mare e i capelli al vento, che lei, con gesto lento, accurato e vagamente ripetitivo, riportava in ordine dietro l’orecchio, che manco a dirlo era perfetto, nel disegno e nelle proporzioni.

«Ti aspettavo» disse senza nemmeno guardarmi. Io mi accomodai sull’altra panca in pietra, a ridosso del muro ornato di fiori; tra di noi la porta della chiesa, chiusa. «Sei venuto sin qui dalla Francia a portare scompiglio nelle nostre vite. Ho provato a ridurre il tuo spazio d’azione, a relegarti nell’angolo del turista svagato e scombinato, una trombata e via, ma tu sei come impermeabile a tutto, anzi mentre tutto sembra passarti sopra,  insospettabilmente invece assorbi e osservi ogni dettaglio, ogni gesto, ogni sguardo. In silenzio entri nella vita delle persone, che ti sentono a pelle, ti desiderano fino a non potere fare a meno di te, innamorandosi, come è successo a me». Poi si girò per guardarmi, nei magnifici occhi blu un lampo fulmineo: «Ma tu cosa ne sai dell’amore… arrivi, te ne vai, fai i tuoi porci comodi, e noi lì ad aspettarti, a vagheggiare un tuo cenno, magari un semplice fiore, discreto e taciturno, come solo tu sai fare. Ma in realtà tu non sai amare, ti crogioli avvitandoti su te stesso avvolto nella confortevolezza di una solitudine salvifica, il solo sentimento che conosci e nel quale ti specchi, una chiave che ti permette di incontrare altre donne ignare e accendere nuovi amori, a loro volta vuoti ed egoisti. Finché qualcuna, un giorno, magari davanti a una piccola chiesa delle Cinque Terre, non ti dirà dal profondo del cuore che tu, Gustavo Michelin, sei solo una grandissima e fottutissima testa di cazzo».


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