di Fabrizio Scarpato
L’hanno trovato impiccato, appeso alla testa del Gigante, a Monterosso.
Erano passati nemmeno due giorni da quando avevo avvisato la polizia locale: trentasei ore, in cui riflettere il più velocemente possibile, cercare tutte le possibili vie d’uscita, per poi morire. Quella mattina all’alba, il cuoco di un ristorante sulla spiaggia di Fegina vide un corpo penzolare dalla bocca del Gigante: era Achille, l’imperatore. Sembra che con dei pezzi di lenzuolo annodati l’uno all’altro abbia stretto un cappio intorno alla testa della statua di Nettuno, che qui tutti chiamano il Gigante, poi al proprio collo e alla fine si sia buttato giù, uccidendosi. Una morte spettacolare, in un posto che rispecchiava in qualche modo il suo desiderio di grandezza e bellezza ridondante. La statua è parte di quel che resta di un’eccentrica grande villa del primo novecento, distrutta poi dall’incuria e dai bombardamenti: raffigurava Nettuno, con tanto di tridente, che sosteneva una terrazza a forma di conchiglia. Sono rimasti un Gigante mutilato di braccia e gambe, e una delle torrette della villa, dove non a caso l’imperatore viveva, quasi a rammentare a tutti un sogno di opulenza, per quanto sgrammaticata, su un tratto di costa mortificato dal tempo e dalla mediocrità degli uomini. E lui non s’era rassegnato al tempo che passa, persino nel modo di vestire, tanto meno ai ricordi, e a modo suo, colpevolmente e senza guardare in faccia nessuno, aveva ostinatamente perseguito il suo improbabile progetto. A tutti i costi. E ora quella statua devastata e irrecuperabile ne testimoniava la fine.
Aveva esagerato, insomma. Era questo che pensava la gente nei bar, dimenticando che erano state uccise delle persone. Ma questo forse la gente non avrebbe dovuto saperlo, forse davvero non lo sapeva, ma certamente Achille era stato informato che sarebbero andati a prenderlo a casa, all’alba di quella mattina. E non l’hanno trovato. Ma io sono un lupo solitario che della gente non si fida, e per dirla tutta, quella testa, intendo quella del Gigante, mi sembrava troppo grande perché un uomo come Achille potesse allestirci la propria forca. Sempre che volesse davvero uccidersi. Così pregai i colleghi della scientifica di tenermi informato sugli esiti delle analisi che avrebbero condotto sul corpo, e me ne andai, rassegnato su un’attesa che sarebbe stata lunga, conoscendo i tempi della polizia italiana, e agli italiani, si sa, manca sempre trenta per far trentuno. Come nel rugby, d’altronde.
Quella morte mi pesava: continuavo a chiedermi cosa avrebbe potuto fare Achille nelle oltre ventiquattr’ore che aveva avuto a disposizione prima dell’inevitabile arresto. Possibile non avesse contattato nessuno, magari la stessa talpa che lo aveva avvertito? Perché non era scappato? E ancora, perchè non aveva combattuto, perché non aveva previsto la benché minima possibilità di difesa?
Mi ero fermato da Mèro per bere qualcosa di forte, tra le occhiate della gente, per certi versi non benevole. Molti ci marciavano con le attività e le intraprese di Achille, e per dirla chiaramente io ero arrivato a rompere un po’ i coglioni. Se poi moriva qualche novantenne in Argentina o in Canada, non aveva grande importanza, tanto meno aiutava ad aprire bed & breakfast. Avevo messo in conto anche questo, ma non così presto. Persino Mèro era meno leccaculo del solito: mi portò il mio Calvados di bassa lega, e come se per puro caso gli fosse venuto in mente, mi disse: «Ah, dimenticavo… è passata sua madre, la cercava. Ha detto che l’avrebbe trovata giù alla spiaggia di Palaedo, nel caso fosse venuto qui…».
Allo scalo di Palaedo si arriva seguendo una via, scavata in parte nella roccia, che inzia alla marina, per poi girare intorno a Punta Bonfiglio, proprio sotto il Turandot. C’era già gente che prendeva il sole di un primo pomeriggio sufficientemente caldo per sdraiarsi sul cemento dello scivolo per le barche, puntando i talloni e piegando le gambe, tanto che ho pensato che si sarebbe potuto distinguere uno di Manarola dall’abbronzatura sugli stinchi, piuttosto che sulle cosce.
Mia madre era in fondo, sul limitare dell’acqua: s’era tolta le calze e godeva della lieve risacca che le bagnava i piedi. Sembrava una bambina. «Visto che bella la via di Palaedo?» disse, allungandomi un foglio ben piegato senza guardarmi, anzi chiudendo gli occhi rivolti al sole, i capelli ricci mossi da refoli di vento. Era una lettera di Achille, che quindi qualcosa aveva tentato di fare nelle ore prima di morire. Iniziava con un ”Ciao Sandra, come stai?” che testimoniava una certa confidenza, che avevo supposto, ma della quale non avevo certezza. Erano parole ansiose di chi cercava aiuto, un estremo tentativo di evitare il peggio. Si rivolgeva a mia madre perché parlasse con me, ”il nostro ispettore” diceva, per convincermi a riflettere e a considerare un ripensamento sulla denuncia effettuata, perché ammetteva di aver sbagliato, ma che non era sua intenzione, che s’era fidato di certe persone e che infine era disposto a rivedere parzialmente i suoi progetti, a fare un passo indietro, lasciando spazio a una trattativa che fosse soddisfacente per tutti e per tutte le Cinque Terre. ”In nome della nostra antica amicizia”, concludeva. Ma poi proseguiva con una seconda parte: punto e a capo, e un tono diverso, il suo, come al solito allusivo e vagamente minaccioso.
«Cara Sandra, lo so, non c’è mai stato posto per me nel tuo cuore. Ricordi i tempi di Corniglia? Eri tanto bella da somigliare a Maria Schneider nell’Ultimo Tango. Eravamo tutti innamorati di te. Ma tu avevi occhi solo per Ettore. Ricordi le notti d’estate, al Guvano, a cantare intorno a un fuoco? Tu avevi orecchi solo per Enea. Poi è arrivato quel francese e non avevi cuore che per lui. Una volta cantai strimpellando Satellite of Love, ricordi?
Satellite of love… I’ve been told that you’ve been bold with Harry, Mark and John
Monday and Tuesday Wednesday through Thursday with Harry, Mark and John
Chissà a chi si riferiva Lou Reed, ma per me Harry, Mark e John erano Ettore, Enea e Robert. Io ero escluso. Cosa potrebbe pensare il nostro caro ispettore di quella situazione così confusa e indeterminata? Perché il nostro caro ispettore sarebbe nato nemmeno otto mesi dopo quell’estate. Ti abbraccio e spero di risentirti con buone nuove, che rivederti temo non mi sarà concesso».
Non ho potuto far altro che togliermi le Adidas e sedermi accanto a lei che continuava a guardare verso Corniglia. «Quella l’abbiamo fatta noi, ragazzi del paese, nel ’68. Beh io portavo da bere e da mangiare… Ma Ettore e Enea c’erano a picconare la roccia» disse, senza nemmeno guardarla, della via da cui ero venuto. «Aprire una strada che ci togliesse dall’isolamento era un modo per sentirci liberi e determinare le nostre vite. Pochi anni più tardi quei duecentosettanta metri simbolici divennero un mondo: cantanti, attori, registi, artisti, spiantati e anche gente matta… venivano tutti nelle Cinque Terre. E poi c’era il Guvano e furono anni di pace, amore e musica. Mi piaceva Ettore, e mi piaceva Enea. Erano diversi, ora mi andava a genio uno, ora l’altro, forse a seconda di quanto e cosa si fumava. Ma ero libera. E felice. Poi una sera Enea cantò una nuova canzone, Perfect Day, e a un certo punto, dal nulla, un ragazzo bello e muscoloso, coi capelli neri raccolti in una coda di cavallo, il naso aquilino e una barba dai baffi morbidi, si inserì nella melodia con un assolo di tromba che nemmeno Mark Charig in Islands. E ci fece volare, tutti. Io me ne innamorai: era tuo padre. ”Dice che era un bell’uomo e veniva dal mare, parlava un’altra lingua…” ricordi? Non passò troppo tempo che scappammo insieme. Solo più tardi scoprii di essere incinta quasi al secondo mese e…» scosse velocemente la testa come colta da un sussulto, strinse le labbra e continuò «Lui è stato un buon padre, è vero gli piacevano le donne, ma amava la musica più di ogni altra cosa, e quando sei stato abbastanza grande se ne è andato, con una valigia e un flicorno dentro una borsa dai disegni navajos. Vive in America, e suona, come ha sempre voluto fare, vagabondando tra Tokyo e New York, tra Los Angeles e Buenos Aires. Non è mai più venuto in Europa. E’ un jazzista, si chiama Bob Michel. Puoi pensare quello che vuoi di me e di lui, puoi pensare quello che vuoi di Ettore e Enea, ma le cose sono andate in questo modo. E se ti va di sapere come mi sento io, ti dico che sono contenta così, che va bene così».
Pianse, e io le toccai i capelli come se volessi toglierle un peso che aveva portato per tanti, troppi anni, facendomene carico, anche se ancora non sapevo come.