L’Ispettore Michelin / Cinque Terre – VIII. Five Lands World

Pubblicato in: TERZA PAGINA di Fabrizio Scarpato
Cavallo di Troia

di Fabrizio Scarpato

Poi capita che in mezzo a un sacchetto di prugne denocciolate, ne addenti una col nocciolo. Che non ci doveva essere, e poco ti consola parlar del destino con un dente scheggiato. Insomma non te lo aspettavi, e per questo fa più male. Succede con un libro, un film, succede coi ristoranti, succede con le persone: prendi una bella prugna morbida… e crac, il nocciolo. E nemmeno vale se una prugna appare un po’ avvizzita, tale comunque da metterti in guardia, da insospettirti: cazzo, c’è scritto denocciolate… e crac. Così succede che ti resta addosso una certa diffidenza, e non solo nei confronti delle prugne.

Poi capita che uno che hai appena conosciuto finisca col metterti le mani nel sangue, ridicolizzando certe piccole certezze, che chissà perché fino a quel momento ti erano sembrate quasi una sofferta conquista, un  punto di arrivo, tali da esser trattate con un filo di sacralità, comunque qualcosa che anche gli altri dovrebbero, non dico invidiarti, ma quantomeno rispettare. E invece: «Ora dico io, cosa ci fa solo soletto in quell’angolino? Venga su in terrazza, facciamo due chiacchiere… Si vedono anche i delfini». Poi apostrofò Enea, con una confidenza esagerata e inopportuna: « O Enea, belìn, ma mi metti l’ispettore Michelin nel buco del culo del balcone, prigioniero tra muro e ringhiera? Eccheccazzo…». Enea non rispose, ma non solo perché era un uomo di poche parole. Insomma ancora una volta mi ero trovato tra le mani un prugna non particolarmente invitante, ma c’era scritto denocciolata, innocua… e crac.

Ovviamente non mi mossi dal mio tavolo, ma quello continuò, una sorta di caterpillar, disposto a passare sopra a sua madre, pur di mettersi al centro dell’attenzione.

«Poche palle: bisogna fare arrivare la gente dal mare. Belle e capienti motobarche a idrogetto potrebbero collegarsi alla terra ferma attraverso dei terminal posti al largo. Ulisse è un maestro nella progettazione di barche belle e silenziose, ma è straordinaria la sua idea di tunnel trasparenti subacquei che porterebbero i passeggeri direttamente nei villaggi, dopo aver letteralmente camminato tra le gorgonie sui fondali del Parco marino. Praticamente senza che nessuno se ne accorga.

Stiamo studiando sistemi a prova di mare mosso e abbiamo fiducia. Una volta a terra bisogna consentire a giovani e vecchi di vedere le Cinque Terre: già sarebbero belle delle normalissime mongolfiere, ma immagino scale mobili e tapis roulants nascosti tra i caruggi più interni e poi teleferiche e cabinovie che colleghino ciascun villaggio ai rispettivi santuari in quota. Solo così potremmo consentire a tutti di godere del paesaggio dall’alto, di capovolgere il punto di vista, di fotografare panorami che nemmeno dai sentieri è possibile cogliere. Mica tutti possono scarpinare su e giù per tratturi oggettivamente affascinanti, ma impervi. Se lo immagina il turista americano rubizzo coi calzini corti, che arriva al santuario di Reggio? Una Via Crucis, è il caso di dire» e scoppia a ridere a quella che doveva essere una battuta, peraltro per me incomprensibile, evidentemente preparata e ad effetto. «Per fare bello il panorama non vorremmo più vedere larghi tratti di coste abbandonate senza coltivazioni, insidiate dai rovi e disastrate nei muri di contenimento. Non occorre rifare tutto, basta ripulire e creare scenari di plastica o sfondi su tela, tanto dall’alto non si capirebbe, ma se ne avvantaggerebbero la vista e l’armonia generale. Poi se qualcuno volesse vedere gli eroici contadini, noi lo porteremmo in aree realmente coltivate, dove dei falsi vignaioli fingerebbero di lavorare, ripetendo la stessa scena durante il loro turno di lavoro: attori, insomma, comparse, automi magari. Senza dimenticare il clou della risalita dalle piane con cesti di uva sulle spalle: quando c’è l’uva bene, altrimenti si portano su sassi di cartone o uva di plastica, perché mica siamo fessi a farci il culo per niente e perché esiste un turismo anche nei mesi diversi da settembre, tanto cosa ne sa un americano o un giapponese di quando si fa il vino. Eroico, a tutti piace la parola eroico. E’ il contesto quello che conta, la fotografia pornografica del gesto, l’orgasmo che valga il costo del biglietto. Che è l’altra parolina magica: biglietto, ticket, card, pass… Frega una sega del vino, del pesto o del miele». Poi mi afferrò il braccio con la mano pelosa e, prendendosi un eccesso di confidenza, mi si avvicinò sussurrando e ghignando: «Tanto poi il vino, quello buono, ce lo facciamo e ce lo beviamo per conto nostro». Non sopporto che mi mettano le mani addosso: guardai il braccio, guardai lui, guardai la mano, guardai lui. Tolse la mano. Subito.

In quel mentre Enea passa per servire un altro tavolo e Achille lo ferma, trattenendolo per una spalla: «O Enea… qui si parla di grandi sistemi, di eroismo, e poi c’è tuo figlio Ascanio che si fa le pippe con le api regina…» disse sghignazzando ad alta voce, masticando le parole col sigaro in bocca. In un solo balzo Enea lo prese per la sciarpa variopinta e lo alzò di peso per attaccarlo al muro, sacrificando qualche bocciolo della bouganville che era sulla via di fiorire: «Lascia stare mio figlio» e quello, ormai paonazzo: «Belìn Enea, non hai mai saputo stare agli scherzi». Enea lo lasciò cadere e lui si ricompose: «Ci sono resistenze di gente miope, come in tutte le cose che portano innovazione: gente senza capacità visionaria, perdenti arroccati tra le loro mura, pauperisti gattopardeschi che nascondono la rumenta sotto il tappeto, voltandosi dall’altra parte. Nient’altro che insignificanti presenze, in un progetto più grande di loro. E anche di me, che non ho più molto tempo. Le potrei parlare dell’idea dell’albergo diffuso con le case lasciate dai proprietari (tanto lo fanno già adesso con ‘sta moda del bed & breakfast), degli spettacoli serali tipo Sons et Lumières, le potrei dire dell’indotto per ristoranti tipici, hamburgherie, sushi bar, e per le ferrovie, sempre che accettino di fermarsi a Monterosso e Riomaggiore, chè poi al tratto di nostra competenza, ci penseremmo noi, magari con treni con night club e casinò a bordo». Si fermò un attimo, poi si alzò in piedi e disse: «Tutto questo, e molto altro, sarebbe il Five Lands World, una meraviglia a cielo aperto che tutto il mondo ci invidierebbe, roba da fare impallidire Las Vegas». E mentre lo diceva, sillabando bene le parole, con la mano aperta disegnava lentamente un arco nell’aria, aiutandosi con un tono stentoreo da provino cinematografico, facendo immaginare il balenìo di luci stroboscopiche e fuochi d’artificio. Poi con un tono di voce più basso, tamburellando le dita di una mano sul tavolo come sopra pensiero, sibilò: «Manca poco, anzi se oggi morissero tutti i vecchi proprietari di case e terreni attualmente dispersi per il mondo e che nemmeno ricordano di possedere qualcosa nelle Cinque Terre… beh, potremmo cominciare di brutto già domani mattina». Nell’attimo di silenzio che seguì, si udiva solo il suo dito che continuava a battere sul tavolo. Lui si sporse in avanti abbassando la testa, preso da una sorta di impazienza: così, senza muoversi, girò gli occhi verso di me, e mi fissò dritto, forse minaccioso, attraverso una nuvola di fumo. Ora batteva più lentamente, come per inchiodarmi al muro.

Fui attraversato da un brivido lungo la schiena, che si trasformò in una frustata di ghiaccio quando, vedendo che ero rimasto senza parole, come immagino desiderasse, si congedò allungando mellifluo la mano braccialettata con un sibilo inquietante: « Salutami tua madre. E anche mia figlia, se la vedi».

Eccolo lì il nocciolo traditore, ancora una volta. Crac.

Vidi Enea che in un angolo appartato si versava qualcosa da bere. Se ne accorse e si avvicinò con un piccolo bicchiere: tirai un bel sorso di quel liquore bianco e le papille presero a fare l’autoscontro come ai baracconi. «Cos’è?» chiesi. E lui: «Sambuca».

Nota: ho creduto a un suggestivo colpo di genio (sic?), quando ho pensato il termine Five Lands: in realtà è un termine che era già stato usato, peraltro col medesimo significato ironico e amaro, negli scritti di Claudio Rollandi, al quale va reso credito e merito


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