L’Ispettore Michelin / Cinque Terre – VII.  L’imperatore

Pubblicato in: TERZA PAGINA di Fabrizio Scarpato
Delfini al largo delle Cinque Terre

di Fabrizio Scarpato

Per qualche giorno feci avanti e indietro nel tunnel di Framura.

Perché nessuno mi toglieva dalla testa che l’incontro con Elena fosse una tavola da tempo apparecchiata per me, una provocazione persino altezzosa. Buttato per terra come un tovagliolo usato, e non sta bene. Insomma una scopata eticamente scorretta, e peraltro tragicamente e unilateralmente interrotta. Il tunnel mi aiutava a mettere ordine: dopo tratti di buio, un varco nella roccia squarciava di luce i pensieri, poi tornava l’oscurità e il passo rallentava, fino ad arrestarsi, sorpreso da una constatazione, da un dubbio, da un gesto. Insomma ci avevo fatto il solco nella galleria tra Bonassola e Framura, finché non approdai, finalmente disteso, nuovamente al Re Pescatore, dove, prendendo posizione sul mio balconcino di prua, arrivai alla definitiva e niente affatto originale conclusione che non mi piace esser preso per il culo.

Enea mi portò da bere un bicchiere di spumante che per oltre un anno era rimasto a prendere spuma in fondo al mare. La bottiglia era tutta incrostata, tanto da far pensare a uno di quei brutti souvenir decorati di conchiglie e cavallucci marini, ma il vino era felicemente secco e salmastro, potente e confortevole: una pacca sulla spalla, tra marinai. Mi venne voglia di cercare una barca a vela per andarmene in giro e vedere le cose da un altro lato. Anche quel vino era nato per inseguire un altro punto di vista e la bottiglia appariva abbastanza provata dall’esperienza, un po’ come me in quel momento, diciamo. «Me la lasci… per favore» e Enea, più silenzioso del solito, prese un secchiello di ghiaccio e ve l’adagiò, non senza aver riempito un cestino di focaccia e modellato qualche fiocco di burro della Val di Vara.

«Finalmente ho il piacere di incontrarla». Una voce sopra le righe mi colse di sorpresa, mentre ero distratto da un vociare eccitato che giungeva dalla terrazza soprastante: pare avessero avvistato un branco di delfini che flottavano proprio davanti al porticciolo, qualche centinaio di metri più in là. Era un uomo bassino vestito in modo troppo sgargiante per la sua età, anni che si illudeva di mascherare con sciarpe colorate, distrattamente avvolte attorno al collo, e con un’improbabile mano di nero ai capelli lunghi e ricci che ignobilmente tratteneva portando gli occhiali da sole Ray Ban alti sulla testa, come fossero un cerchietto. Un classico esempio di giovanilismo, scimmiottamenti patetici di chi è alla frutta o non ha un cazzo da fare. «Buongiorno Gustave, mi chiamo Achille. Certamente avrà sentito parlare di me» disse tendendomi la mano. Non potei fare a meno di notare un braccialetto d’oro molto allentato e grevemente penzolante verso il dorso peloso della mano tesa, e la cosa non mi mise in una disposizione d’animo favorevole. Risposi al saluto educatamente, cercando di sopire anche l’idiosincrasia per ogni forma di protagonismo ostentato. Tuttavia aveva ragione: avevo già sentito parlare di lui. Feci per salutarlo, pensando potesse bastare, quando ricevette una telefonata. Mi fece cenno di aspettare tenendo il braccio teso col dito puntato su di me: «Ciao caro, dimmi caro…» e al terzo ”caro”, duodeno, piloro e villi intestinali decisero tutti insieme di fare un triplo carpiato con avvitamento nel mio ventre, ma senza meritare applausi, anzi: e il vaffanculo uscì spontaneo, quantunque sussurrato.

Poi, come se niente fosse, tirò su le maniche della giacca fino al gomito e continuò: «Li vede quei delfini? Ci piacciono perché sono belli e eleganti nelle loro evoluzioni. Diciamo che sono uno spettacolo della natura e restiamo a guardarli ammirati con un sentimento di gratitudine, perché nessuno li obbliga a passare qui davanti, come nessuno ha disegnato il Grand Canyon o messo in scena il tramonto che vedremo stasera. Poi ci sono le opere dell’uomo, a volte frutto di fantasia, come certi capolavori, oppure esiti di vita sociale, come i palazzi, le piazze, i paesi, le case. Ora pensi alle Cinque Terre: un capolavoro dell’uomo dentro uno spettacolo della natura.

Cinque villaggi così delicati e fragili da destare moti d’affetto e incantato stupore in chi li vede, posti in un contesto paesaggistico che non consente di distinguere tra il blu del mare, il verde dei monti e l’azzurro del cielo, anzi li mescola, a seconda di dove ti trovi, a seconda del tuo punto di vista, in una unicità che accomuna infinite sfumature in pochissimi chilometri». Non capivo se recitava a memoria un depliant pubblicitario o se invece ci credeva davvero, anche perché, sfrondato di una certa aulicità, ciò che diceva era dannatamente vero. Una sola domanda sorgeva spontanea: ”cosa cazzo voleva da me?”. Manco sfiorato dalla mia evidente perplessità, riprese: «Ora lei pensa che tutto questo bendiddio, tutta questa bellezza, debba essere abbandonata a se stessa? Pensa che sia un bene consentire che disordinatamente si inventino posti letto e B&B secondo l’estro dei singoli, senza un coordinamento, senza un’idea? Pensa sia un bene che la stragrande maggioranza dei visitatori si fermi nelle piazzette dei paesi perché le strade sono troppo ripide, per non parlare dei sentieri e dei vigneti? A proposito, ha senso concentrarsi con tanta miopia sul vino e su quelle due o tre bottiglie che riusciamo a produrre? Non pensa che per portare persone tra quelle case, su quelle colline, a mangiare, a bere, a fotografare, a innamorarsi, a riprender contatto con la natura, a godere insomma della vita e di uno spettacolo straordinario, non pensa, dicevo, che ci sarebbe bisogno di una regìa, di un’organizzazione, e di infinita fantasia e coraggio?». Qui il tono s’era fatto ispirato, e in un attimo compresi perché Achille era presidente di tutto, tanto da esser chiamato l’imperatore.

Lui si sedette e con gesti lenti e studiati si accese un sigaro toscano, aspirò forte e sbuffò una densa nuvola di fumo. Poi accavallò le gambe lasciando allo scoperto un censurabile calzino corto e scuro che lambiva un polpaccio asfittico bisognoso di qualche raggio di sole, e si spaparanzò sulla poltroncina, le braccia larghe, il bracciale penzoloni, il riflesso arancione di una sciarpetta indiana sugli immancabili Ray Ban. Come dire: «beh.. eccomi qua».  Aveva evidentemente una visione egocentrica di quello che chiamava spettacolo: non prevedeva singoli protagonisti, né libertà di scelta, tanto meno un barlume di vita quotidiana nei paesi, visti piuttosto come un set cinematografico, per non dire un Luna Park, in cui lui era regista e padrone.

Adesso me ne potevo anche andare: «Eh no, Gustave, io ti devo parlare» e la sottolineatura del tono di voce su quel ”devo”, nonché l’arbitrario uso del ”tu”, suonarono come una vaga, larvata minaccia. O come una inconsapevole richiesta di aiuto.


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