di Fabrizio Scarpato
«Ci vediamo in piazza a Vernazza, sotto gli ombrelloni colorati, non puoi sbagliare».
Un biglietto lasciato da Mèro, firmato Elena, con la ”a” finale che si prolungava in una specie di tralcio con tre fiorellini. Pensai subito alla coincidenza decisamente fortuita, anche se sfigata, visti i precedenti, ma anche a una grande consapevolezza di sé, sfrontata, come solo gli adolescenti possono essere, con un filo di ingenuità che appariva esagerata, troppo esibita. Ma siccome Elena l’adolescenza l’aveva almeno doppiata, pensai di andare a vedere il gioco, anche se confesso che i tre fiorellini ebbero un grande peso nell’accettare quell’invito.
In effetti non si poteva sbagliare. Era la tarda mattina di una bella giornata di primavera, fresca e luminosa, e quegli ombrelloni sembravano messi lì apposta per trovare confortevole riparo, magari in compagnia di un bicchiere e un piatto di trenette al pesto. Ma non era il caso, e tanto meno io avrei potuto abbassarmi a simili, infimi livelli di ovvietà, anche perché Elena arrivò vestita di tutto punto per un trekking e apparve subito evidente che la giornata avrebbe preso una piega diversa rispetto al preventivato. Se qualcuno pensa che i pantaloni a pinocchietto sotto il ginocchio siano un obbrobrio, io sono con lui, ma prima di un giudizio così perentorio avrebbe dovuto vedere quella ragazza, in quel qualunque mattino sulle Cinque Terre. Pantalone verde marcio che le lasciava scoperto quanto bastava del polpaccio, scarponcini tecnici, zaino e uno smanicato centogrammi su una maglia tecnica con zip, diciamo abbastanza profonda.
Questo per dire che mi ero concentrato sul superfluo, perché avrebbe potuto venire anche in pigiama con bigodini e babbucce, e sarebbe stata assolutamente perfetta. Potete anche immaginare la sua reazione nel vedermi col mio esausto cappottino blu, buono per tutte le occasioni, una maglia girocollo, i jeans, e le mitiche, provvidenziali Adidas bianche a righe nere ai piedi. Anche se il suo cappotto era cammello, Alain Delon in quel film di Zurlini mi faceva un emerito baffo.
Dalla torre che sovrasta il porticciolo di Vernazza ci incamminammo per il sentiero numero due, quello azzurro che corre sul mare, unendo, dove possibile, tutti e cinque i villaggi costieri. La nostra meta era Corniglia, la più ruvida e isolata delle Cinque Terre, e la cosa mi intrigava: l’avevo più volte guardata dal Turandot, e mi sembrava un posto difficile da raggiungere e da cui altrettanto difficilmente avresti potuto ripartire. Mi erano passati per la testa il Mont Saint-Michel, la Lapponia svedese, ma anche gli Aber bretoni, per non dire de l’Ile-de-Sein contro la quale andò a schiantarsi ogni mia presunzione.
Non che Corniglia fosse dietro l’angolo, ma c’era abbondanza di bellezza con cui distrarsi: le case coi tetti argentati uscendo da Vernazza, il mare come chimera irraggiungibile, i fichi d’india e le agavi, Prevo, due case con una grande insegna nemmeno fossimo all’ingresso di Parigi, e poi gli ulivi, i fiori, le discese ardite e le risalite su nel cielo aperto, e poi giù il deserto, delle frane e dei silenzi potenti in compagnia solo dei nostri passi. Faceva caldo e senza pensarci feci un pacco del mio cappottino e provai ad annodarlo in vita, finchè Elena non lo mise nello zaino, insieme al suo centogrammi: rimase con quella maglietta arancione, la zip abbassata e i seni puntati sui miei occhi, tanto che il sudore ogni tanto si faceva insopportabile. A un certo punto c’era da scegliere dove trovare refrigerio: difficilmente al santuario di San Bernardino, lassù in alto a sinistra, forse alla spiaggia, velocemente, lì alla nostra destra. C’era anche un cartello sdrucito imbrattato di scritte: Free beach. «E’ la spiaggia di Guvano» disse lei «peccato sia lontana e ormai irraggiungibile» e mi guardò, come dire che se anche avessimo potuto, vestito in quel modo non sarebbe stato il caso. «E’ una spiaggia con una sua storia, famosa trenta, quarant’anni fa, perché prima ci sono stati gli hyppies, poi i nudisti, poi anche un po’ di casino, e magari un po’ di droghe. Ci fu una famosa battaglia all’arrembaggio tra i nudisti e giovani del posto che arrivarono con le barche. Più recentemente è stata chiusa, sia per una frana incombente che per inagibilità della galleria dismessa che la collega al paese. Era mezzo chilometro al buio, se vuoi un passaggio necessario, una specie di catarsi, tra due mondi in fondo non così diversi: come dire… Guvano era una estremizzazione di Corniglia». Un altro luogo negato, ancora un tunnel. Mi fermai un attimo all’ombra di un albero, tra piante di ginestra e canneti nati tra i sassi di eterne frane. E d’improvviso ebbi voglia di andar via, di togliermi di là, di scappare da un peso troppo grande. «Ora l’hanno riaperta, nel senso che ci si arriva solo con la barca, ma sembra non sia più la stessa cosa» disse Elena. Ma io ero già lontano. Risalimmo nel verde ruvido del bosco fino al paese, che mi sembrò meno colorato degli altri, meno cartolina, silenziosamente più vero e vissuto, in qualche modo più precario, affastellato in bilico su uno sperone di roccia, ma forse proprio per questo più forte, più concreto. C’era grande silenzio sul sagrato ciottoloso di una magnifica chiesa in pietra grigia, perché in quella stagione era così, non certo per un altro funerale che velocemente giungeva da un caruggio: questa volta c’erano solo il prete e un chierichetto che portava un’urna. E nessun altro.
Lungo la scalinata di mattoni rossi che porta alla stazione, indossai di nuovo il cappotto e tirai su il bavero: una scalinata a tornanti, coi corrimano che si rincorrono disegnando infinite geometrie. Per un attimo mi sono sentito a Montmartre. Elena mi guardava insistentemente.
Quando fummo al Turandot a Manarola ormai era sera. Rimasi solo qualche minuto con un bicchiere di Calvados, e la testa confusa, in un rincorrersi di passato e presente, di rocce che franano e scale che si attorcigliano all’infinito. Devo aver sonnecchiato un po’, perché come d’incanto mi son ritrovato Elena accanto, cambiata, i capelli sciolti a spiovere su un tubino nero, uscito fuori da chissà dove.
Avevamo fame: decidemmo per una cantina che faceva carne alla brace, e bevemmo una bottiglia di una splendida grenache, voltando le spalle al mare, cosa peraltro consueta, per non dire naturale, da queste parti. Poi un tizio cominciò a suonare. Lei mi chiese di ballare e non so perchè accettai, forse perché questa volta non avevo a che fare con una ballerina e mi fidavo, forse perché aveva un bel profumo. Si alzò tirandosi giù sulle gambe il vestito attillato: «Sono senza mutande…» disse, guardandosi intorno con imbarazzo, abbondantemente finto. Cosa dire a una donna che ti confessa di esser senza mutande… Soprattutto se non ci ride sopra, se non è complice o sanamente ubriaca. Non avevo voglia di pensare, ma nemmeno di ridere. Ripensavo a quel coglione che sembrava importunarla sugli scogli: forse avrebbe avuto più argomenti di me, e lei si sarebbe divertita. Ma l’abbracciai, per ballare su una musica struggente, molto bella, fatta di suoni lontani, di voci vicine, persino di profumi, forse gli stessi che avevo attraversato in quella giornata, forse gli stessi che avrei potuto avvertire in un qualunque porto del Mediterraneo. Ancora un altrove, in ogni dove.
”Umbre de muri muri de mainè, dunde ne vegnì duve l’è ch’anè… e anda e e anda e e anda eyò…”
«Vieni» e mi prese per mano, imboccando una creuza in salita, accanto alla trattoria, forse per godere meglio delle luci romantiche del paese, cullati da quella ballata levantina. Forse. Dopo un paio di rampe il buio era pressoché totale, eravamo tra le vigne, stranamente popolate da figure metalliche, vestite di plastiche traslucide. «Siamo dentro il presepe di Glauco, prende tutta la collina. E’ magnifico» disse lei, guardandosi intorno tra il guardingo e il meravigliato. Mi sedetti su alcuni gradini che davano su una piana, chiusa da un cancello fatto con una vecchia rete per il letto. Fu in quel momento che Elena mi si parò davanti, tirò su il vestitino nero e si mise a cavalcioni delle mie gambe, armeggiando dalle parti della cintura. La musica continuava in lontananza a ritmo lento. La rete cui eravamo appoggiati cigolava dolcemente. La abbracciai, coprendola pudicamente col mio cappotto, mentre un pastore, o forse un re Magio, lì accanto faceva la guardia, severo e impassibile. Non c’era stata casualità, non c’era stata sorpresa, nemmeno un impulso improvviso: eppure mi lasciai andare, per il semplice motivo che era bellissima e profumava di fiori di campo.
Forse il pastore, o il re Magio chissà, se ne ebbe a male, quasi avessimo profanato il suo spazio, perché all’improvviso il presepe si accese, tutto, su tutta la collina, e noi due, avvinghiati dentro un cappotto blu, rimanemmo sospesi dentro il fascio di luce rossa emanato dal nostro amico pastore, o re Magio che fosse. «Cazzo» disse lei ricomponendosi immediatamente. E scappò via di fretta, lasciandosi dietro una scia di profumo di ginestra.
Io rimasi lì, appoggiato alla rete di un letto dismesso, dismesso a mia volta, interrogandomi non benevolmente sul divino e cercando una muta solidarietà negli occhi arancioni di un essere bionico allestito con materiali di risulta. Soli. Io, lui e un cappotto blu.
Crediti: Fabrizio De André, Crêuza de Mä (1984)