L’Ispettore Michelin / Cinque Terre – V. Eroi

Pubblicato in: TERZA PAGINA di Fabrizio Scarpato
Costa de Se'ra - foto gentilmente concessa da Cantine Litan

di Fabrizio Scarpato
Una mattina sentii suonare le campane a morto.

La chiesa era nella parte alta del paese, così potei seguire incuriosito quello strano funerale che pian piano scendeva verso la marina per poi, immagino, risalire al cimitero. Lungo la via principale pressoché deserta nella luce del primo mattino, il parroco e uno svogliato chierichetto precedevano il corteo funebre, di fatto costituito da due persone. Cioè non c’era nemmeno la bara, né un carro che trasportasse la salma nel suo ultimo viaggio. Quando la sparuta processione fu all’altezza del baretto dove ero solito prendere il caffè, mi accorsi che in realtà uno dei due uomini era un addetto che portava tra le mani un’urna cineraria, e che l’altro, che seguiva con una certa partecipazione, compunto e vestito in modo ordinato e ordinario, era Ettore, il vignaiolo. Quando mi passò davanti mi fece un cenno di saluto e tirò un attimo su il mento e le sopracciglia, in una espressione quasi di circostanza che in lui non avrei mai immaginato. Nel bar tutto continuava come se niente fosse, quasi fossero abituati o indifferenti: «Alé, un altro che è tornato» disse fatalista il barista. Io l’italiano lo mastico appena ma so che di solito quando uno muore più che tornare se ne va: il barista colse il mio stupore e mi spiegò che sì quel tizio se ne era andato, ma in Argentina, nel senso che lì era emigrato più di cinquanta anni fa e lì era morto un mesetto prima, ma che nelle sue volontà aveva espresso il desiderio di essere cremato e poi sepolto nel suo paese natìo, che poi era la condizione necessaria perchè quel triste trasferimento potesse avvenire abbastanza agevolmente. «Succede spesso. Anzi, belìn, a dila tuta, negli ultimi tempi a mèa un casino di gente, in giro per il mondo. E poi i vegno tuti chi». Mi restava da capire cosa c’entrasse Ettore, o meglio perchè Ettore fosse il solo paesano coinvolto nel lutto, di fatto per corrispondenza, ma in ogni caso da rispettare. Forse ci aveva pensato anche lui mentre risaliva al piccolo cimitero, così al ritorno si fermò con me per un caffè. «Gli tenevo in ordine un paio di piane vitate e anche la casa con l’aiuto di mia moglie e qualche donna del paese. La sua la affittavo e dopo essermi trattenuto le spese gli mandavo, a lui o a chi per lui, i guadagni» disse con la consueta chiarezza. «Lo faccio per tanti, vecchi che comunque hanno conosciuto il loro paese, che hanno vissuto le Cinque Terre. Le seconde o terze generazioni non sanno, non capiscono e mollano tutto, chi ai bòcchi e all’abbandono, chi al miglior offerente. Che poi è sempre uno» e tirò una litania di bestemmie che se anche avesse guadagnato una qualche indulgenza dopo il funerale, l’aveva già perduta con gli interessi. «Io faccio quello che posso qui a Manarola, a Volastra, qualcosa verso Riomaggiore vicino alle mie vigne. Altri fanno lo stesso negli altri paesi. Altri… diciamo tre o quattro persone. L’ho fatto anche per tua madre. Per non mandare tutto a puttane».

Arrivare alle vigne con una Panda scalcinata fu assolutamente allucinante, ma niente in confronto a quanto mi aspettava una volta sistematomi, ignaro, sul trenino, come lo chiama lui: due vagoncini, uno aperto e un altro a cassonetto, che sferragliavano basculando lungo una cremagliera sospesa a più di un metro di altezza.

Durante la discesa Ettore stava seduto al posto di guida e con disinvoltura mi indicava le isole toscane all’orizzonte, le località lungo la costa e i vigneti adagiati sui terrazzamenti, impiantati a bosco e albarola, più qualcos’altro che aveva a che fare con la Francia. Parlava lui, perché io non è che stessi così rilassato su quel coso, ma la tensione non mi impediva di respirare, e quando dico respirare so cosa dico, un paesaggio straordinario.Eppure mi sembrava evidente il contrasto tra quell’uomo  e ciò che ci circondava: mi sentivo un intruso, quasi che non avessi diritto a transitare in quei luoghi, a camminarli coi miei piedi cittadini, animato da rispettosa curiosità, ma totalmente e desolatamente inoperoso. Perché solo il lavoro dava senso al tutto, solo l’accudimento consentiva di prender parte, solo la fatica poteva dialogare con la bellezza. Io ne ero fuori, e ogni parola di stupore, di sincera meraviglia poteva suonare stonata, ruffiana e rimbalzare vuota di significato. Mi venne in mente quel saluto di mia madre ”cum’i stè?” e capii che non era una cortese e magari trita richiesta di informazioni sullo stato di salute di Ettore, no, era la complicità di chi sapeva, l’accertarsi che anche quel giorno, come tutti i giorni, era stato fatto qualcosa, per se stessi, per gli altri, per i borghi, per la gente: una responsabilità concreta, un farsi carico della salvaguardia di tanta meraviglia. Perché poi, quella stessa gente potesse estasiarsi e stramazzare di stupore: ma a quel punto la cosa non riguardava più Ettore o mia madre. «Dé, t’è perso la parola, a ne semo miga ‘n ciesa… dai, svégia!». Cazzo gliene frega a Ettore delle mie elucubrazioni.

Così arrivammo a una specie di capanno per gli attrezzi, con un tavolo di legno e delle panche piantate per terra, un piccolo frigo e qualche bottiglia di vino. «D’estate tiro su un po’ di canniccio, si fa ombra e si sta bene. Benvenuto nella tana dei pirati». Una bandiera nera col teschio sventolava su un palo flessibile, dietro la vigna. C’era qualcosa che andava oltre il vino e il lavoro, una sorta di resistenza, che era la vita e la ragion d’essere di Ettore.

«Gustavo, prendi un bicchiere». Mi piaceva il mio nome detto in italiano, e ne rimasi sorpreso. Poi tagliò delle fette di formaggetta e stappò una bottiglia: «Mangia, mangia, che poi c’è da travagiae. Mica penserai di esser venuto qui gratis e senza lavorare?». Tirò giù una madonna e rise come un bambino. Caricammo sul vagone chiuso qualche attrezzo e dei sacchi di concime; io mi accomodai, si fa per dire, sul vagone aperto e si ripartì: all’inizio tutto sembrava normale, anche se un sospetto l’avevo maturato, perchè a venti metri vedevo ancora vigne, ma poi sul mio orizzonte c’era solo mare. Infatti le vigne proseguivano giù, e ancora, ancora più giù… planando sopra vigne a braccia tese, nel senso che ero terrorizzato, le mani strette al bordo del vagoncino. Il trenino non faceva una piega, almeno quando non era in curva, sebbene fosse praticamente a perpendicolo. Non mi restava che puntare anche i piedi, il mare da sfondo alle mie Adidas, e guardarmi intorno ostentando indifferenza. Ettore rideva.

«Ecco i fanti!» esclamò. Nelle piane che ormai erano in prossimità del mare due giovani stavano impiantando nuovi pali di sostegno: erano poco più che trentenni, forti. Ettore si mise a rizollare una piana, ma prima diede una pala anche a me: «Vai Gustavo, te fatti quel cian là». Sembravano contenti.

Ogni tanto Ettore si fermava, appoggiandosi al manico dell’attrezzo, e dopo essersi deterso il sudore spiegava: «Queste son piane mie, quelle dove sono i ragazzi sono le piane di Palamede: hai visto stamattina le sue ceneri… Sono un bel po’ di anni che le seguo qui a Costa de Sèra, come ho seguito le tue, su a Costa de Campu. Adesso che Palamede è morto ci sarà l’asta… io le lavoro, così si alza il prezzo per chi le comprerà, se le comprerà». Poi indicò in un’altra direzione: «Là invece sta andando tutto in malora… i padroni sono in Canada, e non ne so più niente» disse guardando ammassi di rovi e muretti crollati sepolti dalle sterpaglie. Non potei fare a meno di notare in lontananza qualche terrazzamento più avanti nella fioritura, perché già verde e con i muretti a secco intatti. Ettore non mi diede retta e riprese a vangare, stizzito: «Forza, lavorare!». Non saprei dire quanto tempo fosse passato, sapevo solo che avevo le vesciche alle mani quando il vignaiolo disse che per quel giorno poteva bastare. I ragazzi si avvicinarono al trenino: «Questo è Ascanio, figlio di Enea, e lui è Paride, figlio di Glauco. Paride lavora ogni tanto con me, ma si è messo in testa di costruire un museo della memoria, raccogliendo storie e racconti di noi vecchi, per non dimenticare. Ascanio c’ha una vigna tutta sua là dietro, verso Riomaggiore, recupera e pianta erbe aromatiche e alleva le api. Anzi c’ha un rapporto d’amore con le api. Insomma si un a ne l’è matto, noi non lo vogliamo…» e rise strigendogli amichevolmente la spalla con la mano. Ripartimmo: loro tre tutti in piedi, paralleli al profilo dello strapiombo, sudici di soddisfazione, bellissimi da vedere; io rannicchiato ed esausto nella mia cesta d’acciaio.

Ora quelle piane verdi si vedevano meglio: «E’ tutta plastica, Gustavo… è tutta plastica» e la voce si ruppe in un singhiozzo, al quale cercò di reagire urlando come il capitano Achab proteso in piedi sulla scialuppa, mentre scollinava sul ciglio del burrone vitato. Ma non appena il trenino si rimise in un assetto più accettabile tirò una bestemmia colossale: «Porca troia, a me l’eo scordà». Vicino alla baracca sostava un gruppetto di giapponesi riuniti intorno a una signorina con un ombrellino arancione, evidentemente indispettita per il ritardo e soprattutto perché, anche a dispetto della stagione, non eravamo sbucati dalle vigne con grandi e pittoresche ceste piene di uva sulle spalle asfittiche. Quando li raggiungemmo, anche senza capire bene l’inglese, si intuiva un tono nonostante tutto epico, nel sottolineare l’eroica fatica di questi vignaioli eroici, artefici di una viticoltura eroica, fatta da gente che tra mille difficoltà, eroicamente la sera porta un pezzo di pane ai figlioletti che, eroici a loro volta, si stringono intorno a un tavolo che eroico forse non poteva essere per il solo fatto che in fondo era un semplice tavolo.

Fu a quel punto che, dopo aver fatto un inchino di cortesia, Ettore sbroccò del tutto di fronte a quel gruppetto di giapponesi ignari e intimiditi: e all’improvviso, per tutta la costa, da Tramonti a Riomaggiore, risuonò un urlo disumano, ma sentito e perentorio: « Eroi un caazzzooo!».

 


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