L’Ispettore Michelin / Cinque Terre I. Tunnel

Pubblicato in: TERZA PAGINA di Fabrizio Scarpato
Tunnel Bonassola Framura

di Fabrizio Scarpato

Quanto raccontato in questo e nei successivi episodi è opera di fantasia.
Ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale

Anche oggi mi sono ritrovato nel tunnel.Perché in effetti è ormai da qualche tempo che succede e devo dire che mi fa stare bene. Perché poi esco e vado a bere qualcosa. Oddìo, quando poi sono fuori, chi può dire che in realtà non ci stia entrando, nel tunnel. Chi può dire di una persona davanti all’imbocco di una galleria se questi ne stia uscendo o se in realtà si stia apprestando, con titubanza, ad entrare. Cosa ne sappiamo.Realtà e immaginazione si confondono in questa giornata ormai primaverile lungo la galleria che separa Bonassola da Framura, in Liguria: luoghi e case accatastati alla fine di un grande arco di terra sul mare, un po’ come Honfleur, se vogliamo. Mi ha fiondato qui una decisione insensata: accompagnare mia madre nei posti dove è nata, e la necessità di rimettere a posto le cose, di mettermi alla prova, di riordinare i pensieri provando a guardarmi da fuori, da lontano, dall’altra parte del mare. Punti di vista, in fondo. Come rallentare il passo dentro la vecchia galleria ferroviaria dismessa, ora trasformata in un chilometro immerso nel buio, da percorrere di corsa, in bici, sui pattini, tra le rocce, tra questi bagliori luminosi che ogni tanto la squarciano. Passo dopo passo rifletto, annuso, ricordo, fino alla successiva feritoia che si lascia attraversare dalla luce e dal profumo del mare. Un altro mare, finalmente.

Avevo visto uno spiraglio di luce anche in quei vasi di crisantemi sul davanzale di una finestra sul Vieux Bassin. Ci passavo quasi ogni giorno andando allo Chat qui Peche per il solito sidro mattutino. A volte sostavo un po’ di trequarti, ostentando un’indifferenza che in realtà celava una curiosità spasmodica: certo non potevo pensare di essere l’unico al mondo a coltivare crisantemi, o meglio, nel mio caso, ad averli coltivati con una tale passione che solo un’innata ritrosia alle smelensaggini e una fondata cocciutaggine nel dar peso alle parole, mi impedisce di chiamare amore. Ma tant’è, si sa che certi amori non finiscono, fanno giri immensi e poi ritornano, e un giorno certamente tornerà la voglia. Così come pensavo avrebbe potuto fare ritorno Paulette. Perchè una cosa è certa: solo io e lei comunicavamo col linguaggio dei crisantemi. Uno, due, tre… Già, se non fosse che poi, all’improvviso, sorgeva il dubbio: cosa avrei potuto dire a Paulette? Cosa avrei dovuto dirle? Ecco che mentre guardavo di sottecchi quella finestra, mi prendeva il terrore che dietro quelle tende potesse sbucare proprio lei. Succede spesso che si trovi più confortevole coltivare una possibilità piuttosto che affrontare una certezza: la vigliaccheria dei sognatori, o il sogno dei vigliacchi, che suona un po’ impietoso, ma rende meglio l’idea.

Poi un giorno si affacciò un uomo enorme e nerboruto, peloso quanto nemmeno Chabal nei suoi giorni più truci. Cazzo, le cose si mettevano male, pensai: Paulette, o chi cacchio fosse, non era sola. Il tizio fece un cenno di saluto nella mia direzione. Impiegai un certo numero di secondi a rendermi conto che era proprio me che salutava. Accennai un buongiorno in un borbottio, alzando appena la mano. Lui sistemò ben bene il vaso di crisantemi come a ravvivarlo, con una inopinata delicatezza per un bestione di tal fatta. E mi sorrise. Fu in quel momento che un altro uomo, esageratamente biondo e glabro, si affacciò a torso nudo alla finestra, scansò l’omone e si prese il vaso di fiori, con una fare acido e risentito. Qualche istante dopo li vidi abbracciati attraverso i vetri della finestra accanto. Mi voltai di scatto, imbarazzato, più che altro a causa di uno strisciante sentimento di invidia per uno stato di innamoramento che avevo ormai dimenticato, semmai lo avessi realmente provato. Non mi restava che constatare come evidentemente non fossi l’unico al mondo che aveva pensato di comunicare coi crisantemi. Che poi, nel caso, nemmeno mi piacevano, perché troppo grandi, spampanati e piantati un po’ alla rinfusa: e di un terribile color arancione. Presi atto, rompendo il fiato con un falso colpo di tosse, che Paulette non era tornata e non nascosi a me stesso un qual certo sollievo. Più difficile fu spiegare alla gigantografia di Séb Chabal un breve periodo di disaffezione, di raffreddamento nei suoi confronti, dettato da chissà quale recondita ragione.

Alla fine della galleria si arriva a Framura. Credo che Framura nemmeno esista, stando il nome ad indicare un insieme di villaggi sparsi lungo il costone che porta verso i monti. Il paese che non c’è. Ma io mi fermo subito all’uscita, appena il tempo di scansare frotte di biciclette e pattinatori incalliti, per entrare al Re Pescatore. E’ un bistrot. Sembra che adesso anche in Italia questo termine sia usato spesso, anche se risulta identificare più ciò che non si è, piuttosto che quello che si vuol proporre: non un ristorante, ma nemmeno una trattoria, non un’enoteca, ma nemmeno un’osteria. Un non luogo o tutti i luoghi, e tutti i laghi assieme, nel quale, come è ovvio, mi trovo molto a mio agio. E’ un edificio sghembo su più piani che corre adiacente alla galleria, sopravanzandone di qualche metro l’uscita. La cosa curiosa è che sembra una nave tagliata a metà, come un triangolo lungo la propria altezza, per sfumare in una punta stretta, un angolo cieco con un terrazzino circondato da agavi, dal quale forse, un tempo, un casellante si sporgeva ad azionare un segnale per regolare il passaggio dei treni. Ma se il lato nord poggia completamente sulla galleria e sulla sua volta d’uscita, il lato sud, va senza dire, si affaccia interamente, totalmente, inesorabilmente sul mare. Un bel modo di uscire dal tunnel, non c’è che dire.

Così spesso prendo il treno da Manarola, scendo a Bonassola e dopo una camminata buia tra me e me, raggiungo il luogo che non c’è, nel paese che non esiste. Le prime volte mi accomodavo sulla terrazza più alta, poi ho provato un più confortevole balcone, ma non potevo fare a meno di addossarmi al muro o alla roccia, come al solito, per guardare e non esser guardato, per non ingombrare il panorama. Io sto sempre un passo indietro. L’oste deve essersene accorto e mi ha lasciato fare, cercando di distrarmi, se così si può dire, ora con un cartoccio di acciughe fritte, ora con un’insalata di mare tiepida, ora con un buon bicchiere di vino. Enea ci sa fare col vino. Tiene la bottiglia tra le mani con grande delicatezza, poggiandone il fondo sul palmo della mano e sfiorando appena il collo con le dita. Si capisce che di quel vino conosce vita, morte e miracoli, ma si limita a riempirti dolcemente il bicchiere, con una specie di luce negli occhi, per poi guardarti soddisfatto, come se avesse condiviso un piccolo tesoro, o rivelato un prezioso segreto. Non parla, non descrive: a quel punto il vino nel bicchiere è tuo, lui ha fatto solo da tramite. Come i poeti, in fondo.

Solo una volta, accogliendomi e indicandomi quel tavolo incastrato tra muro e ringhiera di quel balconcino che andava a morire a semiangolo acuto, proprio all’estremità dell’edificio, mi disse sussurrando: «Le andrebbe bene quel tavolo a prua?». Lo avrei abbracciato.


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