L’Ispettore Michelin / Cinque Terre – IX. Nostalgia

Pubblicato in: TERZA PAGINA di Fabrizio Scarpato
Corniglia

di Fabrizio Scarpato

l passato è un campo minato, devi stare attento a dove metti i piedi.

Paride è un ragazzone biondo che evidentemente a trattare col passato si trova a suo agio, anche se non ho ben capito se sia realmente tutta farina del suo sacco o se sia di fatto un ingenuo incosciente. Insomma non sono sicuro che sappia bene dove mettere i piedi.

L’avevo conosciuto nella vigna di Ettore, il quale aveva fatto cenno a un certo progetto che aveva a che fare con la memoria: il ragazzo se ne stava occupando, sulla scia del lavoro di suo padre Glauco, pensionato delle Poste, che anni addietro aveva inventato il presepe di Manarola, una installazione luminosa di figure a grandezza d’uomo, ottenute eleborando materiali di risulta, che si poteva ammirare nelle feste natalizie sulla collina che sovrastava il paese. Il presepe con gli anni era diventato sempre più grande e ricco di situazioni e personaggi, fino ad occupare quasi tutta la collina, piana dopo piana, muretto dopo muretto. E io ne sapevo qualcosa. Tanto grande che il Natale non bastava più, e dopo Pasqua erano diventate diverse le occasioni in cui la collina si illuminava. Pur essendo di fatto abbastanza recente, forse per il tema trattato, il presepe di Manarola era ormai parte della tradizione, come se fosse stato sempre lì, fino a diventare simbolo di un tempo più lento rispetto ai ritmi imposti dal turismo e ai lustrini retorici dell’imperatore, anche perché poi turismo e Achille erano la stessa cosa.

Incontrai Paride una mattina che stavo per uscire di casa. Salutò guardando per terra, come se volesse evitarmi e chiese direttamente di mia madre. «Vieni Paride, ti stavo aspettando. Accomodati» e lo fece entrare in sala, al piano terreno, mentre con la coda dell’occhio mi fece cenno di restare, muovendo leggermente le dita della mano, quasi a sottolineare che l’invito non ammetteva repliche e tantomeno dinieghi. Restai sulla porta, appoggiato allo stipite. Paride si accomodò, dandomi le spalle.

Disse che si trovava lì per raccogliere ricordi e testimonianze di vita quotidiana della gente del paese, ovviamente privilegiando le persone anziane che potessero rammentare episodi lontani. Aveva in mente di raccogliere quelle storie, e magari oggetti e fotografie, in un museo della memoria, da collocare nella vecchia chiesa sconsacrata all’entrata di Manarola. Non solo, ma nell’immediato c’era intenzione di condividere un buon numero di suggestioni scrivendo brevi frasi significative su dei nastri arancioni che sarebbero stati appesi o annodati lungo i sentieri tra Riomaggiore e Vernazza: un tentativo di rammentare al turista di passaggio quei riferimenti di vita che costituivano la memoria collettiva, il vissuto e l’identità di quelle terre. Mia madre lo guardava ammirata, quasi lo avesse aspettato da sempre.

«C’è stato un periodo, poco più di quarant’anni fa, in cui anche questi posti, così fisicamente chiusi, e non solo per il carattere della gente, si aprirono a certi venti, a certe idee e comportamenti di vita che arrivavano dall’estero. Blowin’ in the wind, cantava Bob Dylan…». Ora, che mia madre citasse Dylan aveva per me quasi del sovrannaturale, ma più che altro rimasi colpito dal fatto che mentre diceva ”poco più di quarant’anni fa” mi avesse guardato, come se stesse parlando di me. Decisi che era meglio sedermi. «A ne so perché, e nemmeno chi sia stato il primo, ma i ragazzi finirono col ritrovarsi tutti a Corniglia, non solo, ma il bello è che attraverso strade sconosciute, arrivarono anche giovani da fuori, che, vai a capire perché, in gran parte erano artisti, scultori, pittori, musicisti e roba del genere. Erano i tempi degli hippies, Woodstock e il raduno all’Isola di Wight c’erano stati da poco, e dall’America arrivavano voci su Andy Warhol e sulla sua Factory; a radio Luxemburg ascoltavamo i dischi… il sogno di Crosby, Stills, Nash & Young, il blu di Joni Mitchell, i colori di Bowie, il bianco e nero di Lou Reed. Mi piaceva tanto Lou Reed». Perché poi da bambino mi cantasse Gino Paoli e Modugno, a quel punto mi risultava difficile da capire, per tacere delle mansioni di perpetua che per qualche tempo aveva svolto nella parrocchia di Honfleur; ma su tutto si poteva soprassedere, mentre da come mi guardava ogni tanto, mi sembrava di capire che quella storia era come un tempo sospeso nella memoria, volutamente lasciato intatto, una bolla che adesso aveva deciso di rompere in qualche modo, raccontando di sé come mai aveva fatto, e come mai avrei immaginato sarebbe stata in grado di fare.

«Puoi scrivere questo sui tuoi nastri arancioni, Paride: che Corniglia ci sembrava il centro del mondo. Forse avevamo bisogno di affetto, forse ne avevamo tanto inespresso nei nostri cuori da poterlo dividere con gli altri. Certo è che ci sentivamo liberi, e anche un po’ matti, ma felici di esserlo. Anche questo te pè scrive: che noi giovani al Guvano respiravamo la libertà».

«Mi sembra che abbia nostalgia di quegli anni…» disse Paride, che ormai era totalmente preso e immedesimato. «Nostalgia sì, ma non come la intendi te. Non mi sento prigioniera di quei tempi, non provo malinconia: ho passato periodi malinconici e senza apparenti prospettive, e le persone che mi stavano vicine ne hanno forse sofferto». Mentre diceva queste parole si voltò verso di me e fissandomi continuò: «Ma adè a son chi e ho capito qual è il mio posto. Sì, ho nostalgia di quegli anni, il mio cuore è là, ma non si può, e nemmeno a go vogia, de tornae ‘ndaré: vivo il mio presente, e il futuro che mi resta da vivere, ancora con passione. La nostalgia è un sentimento di chi guarda avanti, bel me fante». Ma Paride la incalzava: «Ma non era tutto più bello allora?». «Perché insisti? No, non era più bello. Il bello è adesso, anche perché ho avuto la fortuna di viverli quei momenti, e con persone che c’ho voluto bene… C’è un signore in televisione che dice che bisogna ricordare il futuro: ecco forse riesce a spiegarti meglio quello che voglio dire…».

Ripensavo a quelle parole anche giorni dopo mentre in barca tenevo la bolina in direzione dell’isola Palmaria. E non era tanto la sorpresa di una donna che mai avrei pensato potesse aprirsi con un estraneo, ma la netta sensazione che quello fosse un antefatto, un affascinante preambolo, il quadro generale, che non tiene conto dei particolari. Almeno per il momento.

Certo che anche fare un bordo davanti a Riomaggiore e vedere Elena in costume affacendarsi al genoa, era un vero spettacolo: ed è vero che Riomaggiore è bellissima, ma insomma Elena ci metteva del suo e ai punti vinceva la partita. Di stretta misura, diciamo: come il suo costume da bagno. Mi aveva trovato lei una bella barca a vela, rifacendosi viva dopo qualche tempo: «Se sei così bravo a vela, mi porti domani a fare un giro?». Non so cosa fosse cambiato, ma mi sembrava più rilassata, quasi avesse capito di essersi spinta troppo oltre. O magari tutti e due avevamo pensieri da scacciare, e un carattere sufficientemente acido da far si che l’insieme dei nostri problemi fosse di tipo algebrico, così che si elidessero, anziché sommarsi.

«Quella zona lì è Tramonti» disse indicando un tratto di costa tra Riomaggiore e Portovenere. «E’ il posto che mi piace di più, come dice mio padre il più selvatico, perché le case sono sparpagliate a caso lungo i costoni, frutto di piccoli o grandi adattamenti su vecchie baracche da lavoro, disseminate tra i vigneti e la macchia. Non ci sono paesi, ma località. Fossola, Monesteroli, Schiara, Persico… grumi di case, spesso bianche, spesso riadattate con materiali poveri e di risulta, case da fine settimana, da notti fresche d’estate, case senza pretese, ma forse più vere, perché non prevedono vacanze, ma solo spaghettate coi muscoli, gli amici e qualche bottiglia, che si è avuta la pazienza di produrre dalle poche vigne superstiti. Nessuna cartolina, serpentoni di tegole rosse punteggiate di sassi per reggere la furia del libeccio, sprofondi altissimi, su un mare infinitamente lontano, raggiungibile attraverso scalinate impervie e prive del benché minimo appoggio, che si possono anche discendere se non si difetta di equilibrio, ma anche della lucidità di prevedere, obnubilati dal miraggio di un mare primitivo, la devastante fatica del ritorno. Sono posti al limite dell’ancestrale, che insegnano a dimenticare il superfluo, ché saresti pazzo a portari dietro anche un etto di troppo. A Monesteroli, della scalinata riesci a vedere solo una decina di gradoni davanti a te, poi il nulla, tanto è ripida: è quasi come volare».

La guardavo e sembrava sincera, per una volta. Dopo ogni frase si ravviava i capelli e restava in un silenzio sospeso, quasi volesse trovare le parole per proseguire, per farmi capire. «Guai a chi mi tocca Tramonti: guarda, si vede la chiesetta di Nostra Signora degli Angeli Custodi. E’ più lungo il nome della chiesa. Quando ero ragazza sognavo di sposarmi lì. Ma non ho trovato l’uomo giusto. O quasi…». E si voltò di scatto verso di me. Ma io ero già lì, pronto a prenderla tra le braccia e a sciogliere il fiocchetto arancione del suo costume, per un amore forsennato che ci portasse, senza pensare, alla deriva.


Exit mobile version