L’Ispettore Michelin / Cinque Terre – IV. Sciacchetrà

Pubblicato in: TERZA PAGINA di Fabrizio Scarpato
Sciacchetra'

di Fabrizio Scarpato

I personaggi descritti sono frutto di fantasia. Ogni riferimento a persone o a fatti realmente accaduti è puramente casuale

«Mi devo scusare, sono mortificata, ma non ce l’ho fatta».Nel pomeriggio di qualche giorno dopo la vedo arrivare con passo felino ai tavoli del Turandot: la primissima reazione fu di conferma di quanto fosse bella, nel caso avessi preso un abbaglio, la seconda che me ne ero dimenticato. Cioè io avevo rispettato l’appuntamento, ma me ne ero andato con altro per la testa e la cosa era finita lì. Aveva avuto non so quale impegno con un albergo o ristorante, e si rammaricava di non avermi chiesto il numero di telefono: forse, ho pensato, sottintendendo che avrei dovuto chiederglielo io (sicuramente quel tipo degli scogli lo avrebbe fatto). La cosa mi aveva fatto girare i camemberts, che poi frullarono a mille quando le dissi che non si doveva preoccupare perché in ogni caso io il telefono non lo uso e che forse l’avevo lasciato in Francia, e lei trasecolò, non so se per il telefono o perché non aveva afferrato la battuta. Non capisco perché le donne ti devono sempre telefonare: io càpito quando càpita, se c’è un appuntamento lo rispetto, anche se non porto l’orologio, altrimenti lascio fare al caso. Mi piacerebbe che nessuna mi cercasse e che in fondo confidasse in un incontro imprevisto, in una parola, in un sorriso, persino in una corrispondenza di amorosi sensi, possibilmente anonima, perché detesto il mio nome, e non mi piace vedere le espressioni delle persone quando dico loro di chiamarmi Gustave. Vorrei insomma che le cose succedessero senza preavviso, con un po’ d’improvvisazione. E sono sempre disposto a pagarne il conto.

«Non sapevo come rintracciarla. Per vari motivi non mi andava di chiedere in giro: non mi restavano che Enea e Mèro, gli unici due posti che avevamo in comune. Al Re Pescatore non c’era e allora ho provato qui. Ed eccomi qua». Belìn, perspicace (qualche intercalare dialettale l’avevo imparato da tempo e mi veniva abbastanza spontaneo, ma ora avrei potuto permettermi anche certe sfumature, come in quel caso, che avrebbero sottolineato, sottovoce, una leggera presa in giro, diciamo): va senza dire che tenni tutto per me. Insomma si siede al mio tavolo e ordina da bere: «Tocca a me no? Eravamo d’accordo. Ho anche una fame… Mèro… una bottiglia di Sciacchetrà, pane alle noci, un po’ di formaggio nostrale di Teucre, quello forte, un po’ di composta di fichi del Parco e magari due fette di torta di mele». Tutta la diffidenza e la scontrosità malmostosa che spesso mi caratterizzano, d’un tratto svanirono, asfaltate da ciò che più mi piace in una donna: la sfrontatezza a tavola, quando coltiva con garbo il sano vizio della gola, affrancata da ogni schizzinosità e immune rispetto a quella terribile e noiosa malattia che chiamiamo sobrietà. Mèro non si fece pregare e in breve arrivò con tutto quel bendiddio, non mancando di sottolineare come lo Sciacchetrà che stava stappando per noi, era quello preferito dall’imperatore. Non potei fare a meno di notare in quel momento alcune rughe intorno agli occhi di Elena, non per i segni dell’età, anche se non era più giovanissima, ma per un impercettibile lampo di contrarietà nel suo sguardo. Dovette notarlo anche Mèro perché, come se fosse stato rimproverato, si raschiò la gola e se ne andò.

A Mèro piaceva la lirica. Non a caso aveva chiamato Turandot quel posto meraviglioso affacciato su Manarola e abbarbicato su Punta Bonfiglio. Il locale non era suo, era un secondo lavoro, perché al mattino lavorava alle Poste. Infatti un giorno ero andato sin lassù per fare colazione e avevo trovato chiuso: un vero delitto, un controsenso. Appresi più tardi che quasi tutto nelle Cinque Terre si ferma al mattino, a parte i negozi di magliette e souvenir: perché quasi tutti lavorano e sono impiegati alle Poste, negli uffici delle diverse frazioni, in città o lungo la riviera di levante. Ultimamente sembra che gli infermieri stiano scalando le classifiche a scapito dei ferrovieri, per il semplice fatto che magari dopo un turno di notte godono di un paio di giorni di riposo in cui possono dedicarsi alla vera professione degli abitanti di questi luoghi baciati dagli dei: gestire un bed & breakfast. E non è detto che ne abbiano uno soltanto. Mèro invece non ne possedeva, ma potete scommetterci che era il suo sogno: qualsiasi posto era buono, cessi e scantinati compresi. Nell’attesa Mèro cantava e, diciamolo, si faceva anche gli affari degli altri, origliando e cianciando come solo i pettegoli sanno fare. Aveva avuto l’idea di cantare il ”Nessun dorma” ogni sera al tramonto, accompagnandosi con un sostanzioso e indispensabile sottofondo musicale e canoro: per quanto agghiacciante, la performance veniva ogni volta accolta con applausi e grande partecipazione dai turisti, che poi consumavano senza parsimonia, come inebetiti da tanta italianità, del tutto fuori posto, ma si sa che vedendo l’Italia dal Giappone o dall’Australia, non è che si possa spaccare il capello in quattro. Era in fondo un’idea che andava incontro al turismo globale, al mercato globale, all’idiozia globale ed era molto piaciuta al proprietario del Turandot, perché aveva visto realizzata in piccolo e con veniali smagliature, la sua idea di futuro nelle Cinque Terre. Così Mèro ci marciava, e cominciava a fare pensieri di espansione: non gli importava più niente di quelli che un tempo, quando cantava, lo prendevano per il culo: ” O Mèro!” e giù una pernacchia… Perché il suo vero nome era Omero, ma da queste parti tutti, quando lo salutavano o lo interpellavano, pensavano si chiamasse Mèro (”O Mèro cos te fè?”), e Mèro, alla fine, finì col chiamarsi.

«E così si occupa di turismo…». Avrei preferito gustarmi lo Sciacchetrà, ma per cortesia qualcosa dovevo pur dire. Per tutta risposta si tolse le scarpe e allungò le gambe sull’esile palizzata di legno e canne che ci separava dallo strapiombo. Pur nella comprensibile distrazione che il gesto aveva provocato, non capivo se fosse una pazza asociale, priva di qualsiasi remora o condizionamento, o se invece mostrasse continue richieste di aiuto, nel senso che la sua sicurezza celava una condizione di disagio e imbarazzo, che le pesava. Oppure era semplicemente maleducata. «Gli alberghi, piccolini, e i B&B sono della mia famiglia, anzi di mio padre. Io do solo una mano. Al mattino lavoro alle Poste di Monterosso, con Mèro… Se tu… possiamo darci del tu? Ecco se tu mi chiedi se sono felice ti rispondo di no, perché non mi ci ritrovo più». Sinceramente non avrei osato, anzi lungi da me avanzare domande sulla felicità altrui: la felicità è come l’amore, un concetto talmente astratto che puoi interpretarlo, usarlo e sputtanarlo come vuoi, e io detesto le interpretazioni, le rivisitazioni, e anche gli sputtanamenti, proprio per deformazione professionale. «Vedi questo Sciacchetrà? Ne fanno seicento mezze bottiglie, dopo aver coltivato l’uva e averla selezionata sana e matura, dopo averla fatta appassire all’aria sui graticci e aver combattuto le muffe, dopo averla diraspata a mano, acino per acino, per ricavarne una miseria di vino straordinario, ma con una resa infima rispetto alla fatica e al tempo che è stato necessario dedicargli. Perché? Cosa spinge uno come Ettore a farlo? I soldi? Ma quali soldi… Ma lo conosci Ettore?». Scosse un attimo il capo e continuò, infervorandosi: «La terra, lo ha spinto la terra, il desiderio di raccontare la sua terra, e se stesso, in un bicchiere di vino. Raro, come rara è la riconoscenza. Ma evidentemente tutto questo non basta». Rimasi come annichilito sorseggiando quel vino che sapeva di orti e legni, di frutti davanti al camino, sapeva di vento e salotti buoni, di pranzi festosi e credenze dai vetri sabbiati, sapeva di rughe e racconti, di capelli salati, scompigliati sui muretti della marina nei giorni che tira libeccio. «E ora invece, Mèro te lo presenta come il vino che piace all’imperatore, perché dal suo punto di vista è più importante rispetto a chi l’ha fatto. Perché non è importante la terra, la mia terra, non è importante viverla e camminarla, ma usarla, rappresentarla, se necessario assediarla». In quel momento giù alla marina attraccò un barcone, che poi vomitò centinaia di persone, di zainetti colorati, di smartphone, di selfie, di calzini variopinti, di scarpe Nike di ogni foggia, di sandali e bermuda, di felpe con scritto Cinque Terre, di ombrellini colorati e qualche decina di lingue e idiomi che nella quasi totalità alla fine avrebbero trovato una sintesi, un linguaggio comune in una lattina di Coca Cola. Un altoparlante esclama: Ladies and gentlemen Manarola, Cinque Terre, Five Lands.

Al che Elena con lo sguardo perso sull’orizzonte, disse seria, ma con un tono vagamente gutturale, quasi un ringhio soffocato: «Il turismo ci ucciderà». Poi proseguì distrattamente: «L’imperatore, e padrone di questo locale, è mio padre Achille, e quel cretino là sotto che urla stronzate nel megafono, e che oggi ci onora della sua presenza, è il padrone della Compagnia dei Battelli e si chiama Ulisse».


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