L’Ispettore Michelin / Cinque Terre – III. Una madre

Pubblicato in: TERZA PAGINA di Fabrizio Scarpato
Manarola

di Fabrizio Scarpato

Da quando siamo qui non riconosco più mia madre.

E non è il semplice dettaglio di uno spostamento di accento con cui tutti pronunciano il suo nome. Che poi il suo vero nome è Cassandra, ma per tutti è sempre stata Sandra. Lei dice che ha lasciato correre negli anni, perché si era stancata di giustificare o spiegare quel nome decisamente insolito e impegnativo, assecondando in qualche modo quel suo atteggiamento rassegnato che mi ha sempre infastidito. Ho sempre avuto la sensazione che facesse di tutto per rendersi antipatica, persino a se stessa, facendo scelte non sue e flagellandosi l’anima. Alla fine le sarebbe piaciuto farsi chiamare davvero e giustamente Cassandra e mandare tutti a quel paese, se non le fosse costata fatica e una sorta di disdicevole sovraesposizione. Perché quel nome le piaceva. Sua madre era un’antifascista, staffetta partigiana sul finire della Guerra, qualche anno prima che lei nascesse. Faceva parte della Brigata Costiera, proprio qui nelle Cinque Terre, quando prese parte ad operazioni di guerriglia lungo la linea ferroviaria, più o meno in quelle gallerie nelle quali oggi mi piace passeggiare. La chiamò Cassandra, racconta, perché quel nome era reietto, sfigato, discriminato: e lei non lo tollerava, ripromettendosi che avrebbe fatto di tutto perché sua figlia portasse quel nome con fierezza. Non avvenne esattamente così, ma l’insegnamento fece breccia nell’indole e nelle scelte di mia madre, anche se non conosco, né mi è mai interessato conoscere, certe fasi della sua vita. Certo è che una volta, nemmeno tanto tempo fa, quando coltivavo i crisantemi, e il giardino della Gendarmerie ne era pieno, mi disse: «Sei come tua nonna». Non lo presi come un complimento, però. Perchè è vero che mal sopportavo che quei fiori fossero emarginati e disprezzati, ma è altrettanto vero che non volevo aver nulla a che fare col passato, perché porta sempre problemi e perché, da questo punto di vista, già mi basta il presente.

Ma bene o male, questo estremo brandello di Liguria il passato te lo sbatte in faccia ogni mattina. Nei colori delle case, nelle scale, nei muschi, nell’umidità, nel sole e nei sassi, nel verde che inonda le finestre, nella parlata della gente, nei silenzi, nei lavori che non ci sono più, nel mare che fa da sfondo, lontano e inospitale. E così ho fatto i conti con una donna che è come se fosse rinata, fino a lasciare i capelli grigi sciolti e disordinati sul collo, i suoi proverbiali capelli ricci. Sembra persino bella, e mi vergogno a dirlo. La guardo chiacchierare in dialetto con altre donne sedute sulle sedie, sul ciglio del portone di casa; la guardo intraprendere lunghi e affollati silenzi, confusa tra le barche tirate a secco lungo il caruggio; la guardo deliscare le acciughe da metter sotto sale, sgranare fagioli, impastare la farina; la guardo raccogliere asparagi selvatici lungo i tratturi che portano a Volastra; la guardo mentre da Punta Bonfiglio si perde con lo sguardo verso Corniglia. La guardo preparare il pesto, che non conoscevo (”e dove lo trovo il basilico a Honfleur…”) e che mi piace tanto. Lo pressa nel mortaio di marmo di sua madre, rimasto intatto tra le cianfrusaglie d’arredo nella nostra casa in paese, usando il basilico dell’orto delle nostre piane e l’olio degli ulivi delle nostre terre: tutte proprietà che nemmeno sapevo di avere, che sono rimaste lì, immobili, accudite da altre mani, ad aspettarci per anni. Tutte le Cinque Terre aspettano che qualcuno di volta in volta torni ad occuparsi di loro. E forse nella lena che mia madre impiega nel fare il pesto c’è una sorta di rimorso, o di rimpianto, misto all’intima felicità di essersi ritrovata, un’intensità immedesimata che come per incanto emulsiona quella salsa magnifica, appunto forte, gentile e verde, come queste terre. Un giorno anche Enea mi ha fatto assaggiare i mandilli al pesto. «Molto buoni, ma il pesto di mia madre è un’altra cosa» dissi d’istinto, confidando sulla difficoltà delle lingua e su un credito di ingenuità concedibile a uno straniero. «Tranquillo, è quello che dicono tutti, che diciamo tutti. Benvenuto tra noi». Ridemmo e bevemmo, perché col pesto bisogna bere, ma bere bene.

Il pomeriggio che aspettavo Elena al Turandot vedo mia madre che scende lungo la via che dalle piane, i nostri cian, conduce in paese. Il bar è a picco sulla marina di Manarola, coi tavoli sistemati lungo un terrazzamento naturale, al fresco di un pergolato, tra piante di banano. Il cancello e le mura del piccolo cimitero sulla sommità della salita si stavano colorando del rosa del tramonto, e mia madre, come fosse in alta definizione, scendeva lenta con un grande cesto di mimose in equilibrio precario sulla testa. Aveva ripreso anche quella consuetudine delle donne di qui di portare i pesi sulla testa, che fossero ceste di erbe o ortaggi, uva o panni, olive o fiori: mettono sul capo uno straccio arrotolato stretto in modo da creare una base morbida per sostenere il peso, e poi vanno, salgono, scendono lungo le vie e le piane, con l’andatura regale di principesse nubiane, oscillanti con eleganza, una mano a equilibrare il cesto, l’altra spesso sui fianchi, gli occhi attenti alle asperità del terreno. «Non l’ho dimenticato, è come andare in bicicletta» disse contenta. E ora se ne andava verso la marina, coi giapponesi a frotte che le scattavano foto e gli smartphone di mezzo mondo che le facevano da corona filmandone i  movimenti eleganti e compassati. Non so perché ma mi prese una certa apprensione: la raggiunsi e l’accompagnai verso casa, tenendomi leggermente in disparte, quasi a proteggerla. Lei proseguì calma e concentrata, un piede davanti all’altro, ma con la coda dell’occhio riuscì persino a sorridermi.

Arrivati sotto casa, un terra-tetto arancione, con un gozzo blu parcheggiato davanti all’uscio, ci siamo seduti sulla panca in pietra lungo la via, io e lei, più un enorme cesto di fiori di mimosa. Non riuscivo ad evitare di pensare quale motivo mi rendesse quella donna così estranea, quale fosse il sentimento strambo che avevo maturato negli anni, se ora ero lì con lei, seduto in silenzio, senza aver niente da dire. Nemmeno mi accorsi, nel via vai di gente, di un uomo che si stava avvicinando: camicia a quadrettoni, giubbetto smanicato lucido e consunto, pantalonaccio cargo e scarponi che avevano conosciuto tempi migliori, ma coi quali il tizio poteva anche andare a dormire, tanta era la disinvoltura con cui li portava.

«Cum’i stè, Ettore?». «Ciao Sandrina, cume ti vè ca sto… a vegno da travagiae…». Si conoscevano, dunque. Poi mi guardò coi suoi occhi liquidi e orgogliosi, e esclamò: «Belìn, allora te sei il figlio di Rebbì, con l’accento sulla ”i”». Non devo averlo guardato con particolare simpatia. «Lo chiamavamo così tuo padre Robert, perché voleva sempre giocare a rugby. Ma noi manco sapevamo cosa fosse e lo convertimmo alla pallanuoto. Sempre da prendersi per le palle era… non è che cambiasse tanto…» e rise di gusto, scatarrando chissà quante sigarette. Era un uomo dal fisico nervoso, come scolpito nel legno di una vite, rugoso come una vite, e rimase perplesso guardando la mia corporatura non proprio muscolosa: «Te pae, tuo padre, era una bestia… mi sa che ti farebbe bene venirmi a trovare nelle vigne, un giorno di questi…» e mi diede una pacca sulla spalla, dura e secca come una legnata.

Poi guardò mia madre e sono certo che fece fatica a mascherare una specie di groppo in gola, come se non trovasse le parole.

 


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