Nel numero di settembre della rivista Vignevini è stata pubblicata una intervista a Luigi Moio realizzata da Lorenzo Tosi della redazione centrale di Edagricole. La rilanciamo volentieri.
di Lorenzo Tosi
Il fondo e le particelle in sospensione possono forse innnescare un effetto nostalgia, ma non aggiungono qualità al vino, anzi. La camicia che si formava all’interno delle vecchie bottiglie non è sinonimo di genuinità, anzi. I vini maturati sur lies vanno di moda e talvolta sono caratterizzati da profili sensoriali inediti e interessanti, ma poi occorre buttare via una buona quota del contenuto di ogni bottiglia (chi si rassegna alle sensazioni fangose trasmesse dal fondo?). Tutte le schede di valutazione dei concorsi enologici mettono in primo piano gli indici di qualità relativi all’aspetto del vino.
Solo la limpidezza consente di evidenziare le giuste tonalità e intensità legate all’interazione annata-vitigno-territorio del vino che si degusta. In questo senso chiarifiche e filtrazioni sono da considerare una conquista decisiva per l’enologia.
Deviazioni da evitare
Operazioni in grado non solo di restituire brillantezza al momento dell’imbottigliamento, ma anche di correggere e smussare imperfezioni e asperità del profilo organolettico. Eppure c’è chi oggi le mette in discussione, considerandole come un discutibile elemento di correzione di un prodotto che dovrebbe essere il più possibile naturale. Possibile?
Luigi Moio, fresco di nomina alla presidenza della Commissione Enologia dell’Oiv ha spiegato in un recente intervento al convegno Scienza & Vino all’Expo, ripreso in una brillante intervista sul wineblog di Luciano Pignataro (www.lucianopignataro.it) come le deviazioni organolettiche nel vino non siano da considerare tipicità, anzi. La recente diffusione di certi approcci minimalistici in cantina e vigneto ha infatti prodotto anche vini con forti sentori di ridotto, di fenolico oppure all’opposto di ossidato. E soprattutto di produttori che affermano di volerli così, come espressione di tipicità. «Ma le “puzze” – ha stigmatizzato Moio – non sono tipicità, bensì omologazione, perché frutto di errori in vinificazione che sono uguali in tutto il mondo».
Una considerazione che vale anche per le deviazioni di aspetto? Torbidità e nuance opache possono essere tollerate? Oppure, come si usa dire, anche l’occhio vuole la sua parte?.«È vero – testimonia Moio – con i solidi in sospensione si degusta decisamente male. Oggi nel continuo brusio che si alza dalla platea del vino parlato si sentono sempre più spesso rieccheggiare considerazioni sulle maturazione sur lies. In questo senso non si inventa mai niente di nuovo e si assorbe tutto dall’esperienza francese o tedesca. Indirizzi nati in areali dove si coltivano vitigni molto aromatici, ma su varietà come il Riesling renano deviazioni come eventuali “odori di feccine” non si avvertono nemmeno. L’esperienza italiana si è sviluppata invece grazie al confronto con un ampio panorama varietale, per lo più aromaticamente neutro e quindi si deve basare sul massimo rispetto dell’espressione dell’interazione tra vitigno ed areale di produzione. Senza considerare che vino torbido può voler dire batteri. E la presenza dei batteri può voler dire ammine biogene. E lei sa che le micotossine sono una delle criticità maggiori non solo per la viticoltura, ma per tutta la nostra agricoltura. I vecchi testi chiamavano gli interventi di chiarifica “invecchiamento accelerato”, perchè velocizzano l’effetto della tradizionale sedimentazione ottenuta con travasi successivi (se si dispone di tempo e di…volontà). Sempre che la gestione della fase di vigneto sia stata impeccabile e le fecce siano pulite, perchè se c’è un solo acino corrotto il risultato viene vanificato».
Una bocciatura sonora per tutti gli approcci produttivi basati su strategie biologiche, naturali, biodinamiche?
«Non proprio. Il mondo del vino è oggi attraversato da una positiva tensione verso la sostenibilità ambientale, il rispetto della biodiversità dei suoli, la tutela del territorio e della salute. L’Oiv condivide e promuove tutti questi aspetti (l’ultima risoluzione dell’organismo sovranazionale riguarda il calcolo della carbon footprint della produzione vinicola, ndr). Nel vino però l’etica si deve sempre fondere con l’estetica. E in vigneto o in cantina non si può lasciare nulla al caso, serve scienza e coscienza. Dipende da come intendiamo il vino: è il semplice effetto dell’interazione tra vitigno e territorio, oppure è il frutto dell’ingegno dell’uomo? Non mi sembra che la seconda definizione sia denigratoria: i vini che degustiamo oggi sono decisamente migliori rispetto a quelli del passato, perchè frutto di centinaia di anni di esperienze e dell’applicazione delle acquisizioni del mondo della ricerca».
Ma la chiarifica è una pratica che ha a molto che fare con l’esperienza e l’empirismo, visto che si basa su reazioni non stechiometriche.
«Esperienza sì, empirismo decisamente no. Il giusto equilibrio tra chiarifica e rispetto del profilo aromatico varietale va perseguito tramite prove di stabilizzazione del vino. Ogni anno in post-vendemmia conviene fare prove in piccola scala in laboratorio perché nel mosto ci sono tante componenti che possono interagire: colloidi, cationi, anioni, enzimi. Tutte le grosse realtà enologiche fanno test di chiarifica su cilindri per trovare la giusta dose di caseina o albumina».
E i nuovi prodotti? L’entrata in vigore del Reg (Ce) 579/2012 ha spinto enologi e operatori a tenere conto della potenziale allergenicità dei coadiuvanti enologici utilizzabili in fase di chiarifica di mosti e vini. In particolare con l’obbligo di indicare in etichetta prodotti proteici di origine animale come le caseine e l’albumina, ma anche il lisozima, anch’esso estratto dall’albume (da indicare tutti se superano la soglia limite di 0,25 mg/l). La rincorsa all’allergen free ha così obbligato a rivedere sia le pratiche di collaggio dei vini bianchi che la chiarifica dei rossi. Il vino italiano ha saputo adeguarsi?
«Anche per questo argomento ci vuole una buona dose di contezza pratica. Caseina e albumina sono prodotti naturali e ancora validissimi. Il governo italiano si era battuto per proteggere soprattutto l’ovoalbumina, anche perchè i ring test hanno dimostrato l’assenza di allergeni residui nel vino dopo i trattamenti. La nuova disciplina europea è però andata oltre parlando di semplice utilizzo di prodotti potenzialmente allergenici, ma molti produttori continuano ad utilizzare albumina e caseina senza problemi. E per i produttori di Bordeaux il ricorso all’ovoalbumina per contenere i tannini ruvidi in eccesso continua ad essere insostituibile. Rimane un caposaldo da difendere strenuamente: i coadiuvanti utilizzati nel vino non devono essere considerati ingredienti. L’unico ingrediente del vino è l’uva. Nei prossimi 3 anni presso la Commissione Enologia dell’Oiv abbiamo molto lavoro da fare per difendere la natura “agricola” del vino. Soprattutto dagli attacchi dei Paesi nordici che sono abituati a trattare un prodotto “industriale” come la birra».
Un problema di confronto culturale?
«E di pregiudizi da contrastare. Il vino è un prodotto della tecnologia agraria, ma nel dopoguerra i primi enotecnici erano costretti ad iscriversi ad altre facoltà tecniche. Il
problema di allora era proprio la stabilità: con la diffusione dell’imbottigliamento su vasta scala si verificavano problemi legati alle casse ferrica e rameica e l’enotecnico era una sorta di medico chiamato per guarire il vino “malato”. Paradossalmente si tratta di problemi, quelli delle casse, che si ripresentano in qualche caso in questi anni a causa dell’eccesso di dogmatismo di produttori biologici improvvisati che eccedono con il rame in vigneto. Si è invece capito che per ottenere la stabilità del vino occorre partire dalla corretta gestione del vigneto, vinificando uve sane e non corrotte. Caratterizzate da pH più bassi e da un maggior contenuto in antiossidanti. Una considerazione che ha però innescato ulteriori pregiudizi verso le viticolture del Sud, da smentire una volta per tutte: non è una verità assoluta che il clima mediterraneo caldo siccitoso faccia crollare il pH. Dipende dall’interazione vitigno- territorio. Basti pensare a vitigni autoctoni (o è meglio chiamarli adattati?) come i Carricante e i Nerello mascalese che in Sicilia vengono vendemmiati con pH 3.1 (acidità 9-9,5). E in alta Irpinia, nella zona di produzione del Taurasi (dove Moio gestisce la propria azienda Quintodecimo, ndr) il Greco registra un’acidità del 10,5. È chiaro che Chardonnay e Merlot non si possono fare ovunque a cuor leggero al Sud».
Il mercato internazionale sembra però apprezzare la biodiversità italiana, con le centinaia di vitigni coltivati e le diverse nicchie pedoclimatiche. C’è però chi pensa che anche la differenziazione del metodo di produzione possa essere una chiave di valorizzazione commerciale. La certificazione allergen free punta a questo e nel campo dei chiarificanti si assiste ad un fiorire di proposte: proteine vegetali (estratte da frumento, dal pisello, dalla patata), nuovi biopolimeri come chitina e chitosano; fino agli estratti proteici dal lievito. Quali sono i pregi e difetti di ognuna di queste categorie di prodotti?
«L’obbligo di indicare in etichetta l’utilizzo di coadiuvanti potenzialmente allergenici ha incentivato lo studio su nuove matrici, studi che sono del resto in corso già dagli anni ’80 e ’90 del secolo scorso. In commercio oggi ci sono già validi chiarificanti a base di proteine vegetali derivate dal pisello. Poi chitosano e lisati di lievito con potenzialità straordinarie da confermare. Io posso parlare, per esperienza diretta, delle proteine vegetali estratte dalla patata che stanno dando buoni risultati in termini di velocità di chiarifica, con un illimpidimento rapido e la mancanza di residui, soprattutto ora che i metodi di separazione cromatografica consentono di evitare la presenza di solanina (una recente risoluzione Oiv ne ha fissato i nuovi limiti ammessi)».
Il rischio “smagrimento”
Innovazioni che si conciliano con la necessità del rispetto del profilo aromatico varietale?
«Il rischio di un eccessivo “smagrimento” del vino è correlato al destino enologico. Se devo fare un vino da vendere
entro 10 mesi allora la chiarifica molto difficilmente darà dei problemi. Se invece l’obiettivo è la longevità, allora occorre fare attenzione a non depauperare il vino di precursori che costuiscono il serbatoio aromatico in grado di dare una continua freschezza al vino durante le lunghe conservazioni. Dipende anche dai vitigni. Per i vini ricchi di aromi varietali (Riesling, Gewurtztraminer, Moscato) ci si può spingere a successive chiariche senza dare la sensazione di smagrire il vino. Ai miei studenti dico che non è possibile fare un vino se prima non lo si ha “in testa”. Voglio fare un vino che va bevuto dopo 4 mesi, dopo 2-3 anni oppure dopo decine di anni? Compito del tecnico è quello di conoscere il potenziale enologico delle uve che intende vinificare. E ora che sono disponibili numerosi coadiuvanti enologici servirebbe la giusta bussola per orientarsi. L’obiettivo per il futuro dovrebbe essere proprio questo: modellare i prodotti enologici sulla base della tipologia delle varietà e degli obiettivi da ottenere. Differenziare insomma tra chiarificanti da vini giovani e da vini da invecchiamento».
Caseina e albumina, differenze storiche
La prima differenziazione tra chiarificanti è storica: le caseine sono impiegate per il collaggio dei bianchi, intervenendo peraltro positivamente sulle caratteristiche organolettiche (maggiore
brillantezza del colore e sapore più fresco); l’ovoalbumina invece è di norma utilizzata per il trattamento dei vini rossi strutturati, conferendo maggiore morbidezza e riducendo l’astringenza dovuta alla presenza di tannini ruvidi.
«Differenze – spiega Moio – che dipendono dalla natura chimica di questi prodotti: l’albumina ha bisogno di tannini per flocculare mentre la caseina ha un punto isoelettrico 4,6 e la sua flocculazione è esclusivamente dovuta all’acidità dell’ambiente (come il vino o il mosto) in cui opera. Si è sempre dimostrata un ottimo chelante per il rame e il ferro e agisce sui composti fenolici proteggendoli dall’ossidazione ma asportando anche, in parte levo-antociani».
Il vino buono? Secondo Moio è quello in cui i profumi e il sapore sono la purissima espressione dell’interazione tra vigneto e cru e della situazione pedoclimatica in cui il vigneto vegeta. Una convinzione da cui deriva l’avversione contro l’eccessivo dogmatismo di chi si rifà ai canoni del bio. «Io penso innanzitutto al vino – spiega-. Se è vero che in talune condizioni pedoclimatiche del nostro territorio non possiamo sperare di coltivare con successo varietà come ad esempio il Merlot, che alle nostre latitudini viene già spesso raccolto con pH 3,6 con un contenuto in acido malico che con giornate molto soleggiate viene completamente degradato, allora è altrettanto vero che eventuali tracce di rame legate ad un suo eccessivo utilizzo in vigneto innesca in pochi giorni nei mosti l’ossidazione degli antociani a chinoni. Con effetti negativi innanzitutto sugli aromi varietali, ma anche sulla stabilità del vino nel tempo. Senza considerare che la perdita di antiossidanti annulla completamente il fattore di successo che ha incentivato il consumo di vino negli ultimi anni: la sostenibilità è di primaria importante, ma va perseguita in maniera intelligente».
La bussola dell’enologia mondiale torna al centro del Mediterraneo
Aria nuova in rue d’Aguesseau. A Parigi, nella sede dell’Organizzazione Internazionale della Vigna e del Vino, sul pennone più alto del bastione di tutela dell’enologia mondiale sventola il tricolore, quello nostro con il color verde speranza. L’assemblea generale che si è tenuta a Mainz in Germania lo scorso 10 luglio ha eletto all’unanimità Luigi Moio come nuovo presidente della Commissione Enologia dell’Oiv. È la prima volta che capita. Personalità di spicco della nostra vitivinicoltura come il professor Mario Fregoni, Antonio Calò, Michele Borgo hanno avuto l’onore di guidare la Commissione Viticoltura. Raramente invece i francesi hanno lasciato ad altri la stanza dei bottoni dell’enologia mondiale. E quando è successo è stato appannaggio di Paesi con caratteristiche pedoclimatiche simili e non in diretta competizione come la Germania (Moio succede alla tedesca Monika Christmann).
Gli obiettivi del mandato. Qual è la sfida più importante che il professor Luigi Moio è chiamato ad affrontate nel corso del suo mandato alla presidenza della Commissione enologia dell’Oiv?
«Sicuramente – risponde – quella di avanzare a grandi falcate nel tema della sostenibilità del vino, ma in maniera intelligente. Il vino non è un bene primario: se ne può fare a meno. Per questo la sua produzione deve essere assolutamente sostenibile, un obiettivo da raggiungere attraverso il confronto. E la coerenza. L’annata 2014, caratterizzata da un clima estivo particolarmente piovoso, non è stata particolarmente favorevole, soprattutto per chi può contare su mezzi di difesa limitati come il biologico. Eppure ho sentito produttori dire: il vino quest’anno sarà un po’ meno bio, un’incongruenza inaccettabile. Sull’altro fronte l’Oiv dovrà mettere ordine nelle tecniche e nelle tecnologie ammesse, verificando la validità e anche la necessità di tutte le nuove proposte. Il tema della chiarificazione e della stabilizzazione è un esempio di come la ricerca del nuovo a tutti i costi non sia sempre giustificata. Caseina e albumina continuano infatti ad essere, dopo decenni, i chiarificanti più utilizzati. E tornano d’attualità tecniche messe da parte in passato come la filtrazione e la centrifugazione».
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