di Raffaele Mosca
È tra gli eventi più interessanti che si tengono annualmente nella capitale: in controtendenza con tutti gli altri perché rifugge l’ossessione per le nuove annate e ha come tema principale l’evoluzione del vino negli anni.
Giunta oramai alla decima edizione, Life of Wine, manifestazione organizzata da Studio Umami con il giornalista Maurizio Valeriani, è una bellissima occasione per testare la tenuta del tempo di vini famosi e meno famosi, a volte difficili da reperire o da assaggiare altrove. Per il sottoscritto è anche il primo evento pubblico in presenza nella capitale e mi ricorda che vanno bene le anteprime stampa, le serate per pochi eletti – che sono state un must in epoca post-lockdown – ma, per avere una conoscenza del vino italiano a 360 gradi, bisogna andare oltre le kermesse istituzionali e gettarsi a capofitto nei saloni gremiti, armati di bicchiere e di greenpass.
Detto questo, i vini in mini-verticale presenti a banchi d’assaggi erano veramente tanti. Questi sono quelli che – per motivi perlopiù positivi, ma non solo – mi hanno sorpreso di più:
Col di Corte – Vigneto di Tobia
Non pago della quadrupla verticale di Verdicchio svolta in quel di Matelica poche settimana fa, apro le danze con un trittico di Verdicchio dal comune di Montecarotto, uno dei Grand Cru dei Castelli di Jesi. Siamo sull’altro versante del monte San Vicino, a un’altitudine compresa tra 150 e 300 metri; Col di Corte è un’azienda piccolina che lavora in regime biodinamico dal 2015 e produce vini sinceri, senza orpelli, ma mai troppo rustici. Il 2019 del Vigneto di Tobia, Cru aziendale, ha la freschezza, il timbro minerale canonico del Verdicchio, ma anche una discreta polpa che lo rende abbinabile ad un risotto alla pescatora e alla gricia con la stessa facilità. La 2018 ha un naso più timido, meno solare, ma sorprende un bocca con una dinamica centrata sull’agrume e sul sale da Chablis di vigneron con gli attributi. La 2017, infine, è più ricca, esuberante, con qualche cenno tropicale e un sorso più disteso. Me lo giocherei su di una tagliatella con guanciale, porro e zafferano.
Marisa Cuomo – Fiorduva
Occasione pressapoco irripetibile: del bianco leggendario di Andrea Ferraioli e Marisa Cuomo si faticano a reperire le bottiglie dell’ultima annata, figuriamoci di quelle antecedenti! … E questa mini-verticale conferma quanto appurato a Campania Stories, ovvero che la 2019 è tra le migliori versioni degli ultimi anni, ma deve ancora sbocciare. Adesso si beve benissimo la 2017, che sa di sfusato amalfitano, pesche e albicocche mature, erbe disidratate, e oscilla in bocca tra cremosità avvolgente e rimandi marini. La 2018, invece, segue la traccia della 2019, con un sorso appena più disteso, più maturo nel frutto, ma anche una tensione di fondo saldissima che lo proietta nel futuro.
Col d’Orcia – Brunello di Montalcino
É il più valido tra i Brunelli tirati in centinaia di migliaia di bottiglie: frutto di un assemblaggio di vigneti e vini da far invidia a uno Champagne di maison, in annata felice regala soddisfazioni non da poco a un prezzo più che onesto. La 2016 è forse la versione più centrata dell’ultimo decennio: profumata di macchia mediterranea e fuliggine, bacche rosse e arancia sanguinella. Non ha la profondità dei migliori Brunelli, ma è tonica, slanciata, facile da bere e abbinare. Buonissima anche la 2013, che dispensa aromi classici di felce e legno arso, erbe disidratate, e un sorso agile e bilanciato, saporitamente salino e ritmato da un tannino vispo. Meno compiute, ma comunque piacevoli, la 2014 – appena diluita, imprecisa al naso – e la 2011, che offre più polpa, più calore, meno grinta e meno persistenza.
La Stradina – Gattinara
Azienda piccolissima che pare abbia stregato il team di Vinodabere nella degustazione alla cieca per la guida vini Alto Piemonte. Siamo nella denominazione più famosa dele terre del “Super vulcano” e le poche migliaia di bottiglie delle due etichette prodotte provengono da una parcella di mezzo ettaro. La 2016 è splendida: raffinatissima, profumata di ribes rosso ed erbe officinali, acqua di rose, arancia sanguinella. Scorre soave , disinvolta e lascia un’ eco minerale e mentolata di rara finezza. Più corposa, ma sempre agile, la 2017, mentre la Riserva 2015 ha un naso profondo e variegato – mela rossa, anice, tabacco Kentucky – e una bocca materica, sostenuta da un tannino abbastanza grintoso che chiede abbinamenti di media importanza: penso, ad esempio, a un tagliolino con ragù di salsiccia di Bra.
Polvanera – Primitivo Gioia del Colle ‘17
Dici Primitivo e tutti pensano a Manduria, ma in realtà la culla di questo vitigno, il luogo dove è approdato dall’Est Europa secoli fa, è Gioia del Colle, paese a sud-ovest di Bari che ospita uno dei più importanti manieri federiciani. Purtroppo Polvanera rientra tra le pochissime aziende – sei o sette in tutto – che sfruttano il potenziale di questo terroir relativamente poco esplorato, dove il Primitivo acquisisce una spina dorsale acida che nel Tarantino tende a mancare. 17 sono i gradi alcolici che, in annate come la 2014 e la 2011, si sentono a malapena. La ‘14 spinge sulle classiche speziature del vitigno, che, insieme ad una spalla acida da annata fresca, vivacizzano il sorso; la ‘11 ha profumi accattivanti di visciole sotto spirito, liquirizia, tabacco, pomodoro secco, e un sorso allietato da una bella ventata balsamica. La 2017, invece, è un po’ più corpulenta, ma non sgraziata e la 2007 svela tracce di ossidazione – sottobosco, funghi porcini, pot-pourri – ma mantiene una certa freschezza di fondo che la rende ancora molto godibile.
Oasi degli Angeli – Kurni
Una bomba, un caterpillar, uno dei vini più esplosivi e divisivi in assoluto: prodotto da vigne di Montepulciano con densità per ettaro impressionanti e rese bassissime, affinato in legno nuovo al 100%, è l’etichetta italiana che più si avvicina ai garage wines della riva destra di Bordeaux e delle California. La 2018 è impetuosa, esplosiva: sa di prugna e marmellata di more, tabacco mentolato e boiserie, cioccolato amaro, olive al forno. Riempie la bocca con la sua mole di frutto denso, stra-maturo, distinguendosi sicuramente per ricchezza e concentrazione, ma non per scorrevolezza. Assaggio a ruota la 2014, che è figlia di un millesimo più fresco e ha un corpo più sottile – si fa per dire! – ma ugualmente ricco nella parte fruttata, con qualche traccia di maturità (felce, radici, pot-pourri) che dà la terza dimensione. L’impressione in questo caso – come in qualunque occasione precedente in cui l’ho degustato – è che si tratti di un vino indubbiamente complesso e sfaccettato, ma più in linea con il gusto degli appassionati mitteleuropei e transoceanici che con quello italiano.
Cantine del Notaio – Aglianico del Vulture La Firma
Incrociando i dati delle sette guide più importanti, Wine News ha constatato che la cantina dell’oramai ex notaio Gerardo Giuratrabochetti é stata la più premiata d’Italia nel 2020. La maggioranza dei riconoscimenti l’ha agguantata proprio La Firma, vino icona che, in annata 2015, sfoggia un profilo giocato su sensazioni eleganti, di menta e legni balsamici, confettura di visciola, rose appassite. È costruito alla perfezione: ematico e cioccolatoso allo stesso tempo, sorretto da tannini magistralmente estratti. Ha più spessore e profondità rispetto alla ‘14, che è indecisa come quasi tutti i vini di quest’annata, ma in questo momento offre una scorrevolezza, uno slancio acido-sapido che la rende molto centrata. Nella ‘13, invece, il registro si fa più è scuro, più linea con i canoni dell’Aglianico fumoso, vulcanico, profumato di spezie ed erbe officinali. Anche in questo caso il sorso é perfettamente calibrato, un pochino più irruente nella parte tannica, nel complesso ancora giovanissimo.
Fattoria Selvapiana – Chianti Classico Vigneto Bucerchiale
Una declinazione snella e raffinata – femminea, si sarebbe detto in altre epoche – di Sangiovese proveniente da un’enclave subito a est di Firenze, che forse trarrebbe vantaggio dalla rimozione dell’appellativo “Chianti” che mette in ombra il nome storico del territorio. La 2018 è deliziosa: mentolata e floreale al naso, longilinea e garbata al palato, con una spinta acida elettrizzante e un frutto centrato, soavissimo. Più terragna e polputa la 2013, che convince comunque per profondità e bilanciamento tra spalla acida ed evoluzione appena accennata. Ma questo è un vino rinomatamente inossidabile e, dopo una 2003 che ha ancora più di qualcosa da raccontare (anche se comincia ad incamminarsi sul viale del tramonto), mi sorprende una 1994 pimpante e reattiva, balsamica e boschiva, con un nerbo acido-sapido ancora vivissimo e un finale di puro velluto.
Oltre a questi vini, c’era anche uno stand con tutte le Grenache del Piceno (anche note come “Bordò). Quella del biotipo marchigiano del vitigno del Midi francese recentemente riscoperto tra vecchi vigneti é una storia tutta da scrivere, ma la sensazione è che se ne possano ricavare vini clamorosi. Segnalo, tra le versioni più convincenti in questa fase embrionale del progetto, il Ruggine di Clara Marcelli, il Ribalta di Pantaleone e il Rossomatò di Valter Mattoni, tre etichette che, alla cieca, potrebbe essere tranquillamente scambiate per qualcosa di proveniente da Rodano e dintorni.
Questo è quanto. Arrivederci alla prossima edizione!
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