Una vita dedicata al teatro e …alla cucina Eduardo De Filippo è scomparso nel 1985, 25 anni fa, ci ha lasciato un patrimonio umano, artistico e culturale inestimabile e un vuoto impossibile da colmare.
Il teatro è stata la vita di Eduardo, ma non solo. La poesia è stata un altro grande amore, più sottotono, sussurrata, composta di emozioni, ricordi e saggezza della napoletanità oggi perduta.
In questi giorni di fine luglio mi è capitato tra le mani un libro, pubblicato dalla moglie, Isabella Quarantotti de Filippo nel 2001 per Guido Tommasi Editore: “ SI CUCINE CUMME VOGL’Ì.” La cucina povera di Eduardo. Si tratta di un poemetto gastronomico che Eduardo cominciò negli anni’ 60 e di cui nessuno era a conoscenza, alla moglie Isabella diceva solo che non si trattava di un semplice libro di cucina, ovvero, una raccolta di ricette, e che per questo era faticoso e richiedeva tempo. Eduardo descrive in versi i piatti della cucina popolare da lui più amati sin dall’infanzia con toni rievocativi e saporiti.
In questa piccola raccolta ci appare un De Filippo diverso, popolar-gourmet, goloso ma senza eccessi, sempre memore di esser nato povero, ma dignitoso. Ecco allora che nulla è lasciato al caso, tutto ha un suo rituale, una sequenza mai uguale a sé stessa, sempre pronta ad esprimere guizzi di fantasia, misti a sapori antichi, il tutto celebrato in convivialità, la massima espressione del piacere dello stare a tavola. Piatti “ ‘ e pacienza”, appresi dalla nonna Concetta Termini De Filippo, durante le tournèe della madre, quando, Eduardo ragazzino già si aggirava tra i fornelli e poi diventò un gran cuoco: ragù, genovese, sartù di riso, lasagne, le sue specialità. I suoi piatti preferiti restavano però quelli poveri della nonna, semplici, ma fatti con fantasia e amore.
Il libro si apre con l’introduzione di Dario Fo che lo definisce “una bellissima fusione tra lezioni di vita e cucina povera, fatta di parsimonia, ingegno, fantasia e creatività, con ricette con prodotti sempre freschi di giornata.” Il testo contiene le ricette di Eduardo e di nonna Concetta e un capitolo dedicato al rituale del caffè napoletano. Teatro e cucina per De Filippo hanno sempre vissuto in simbiosi, basti solo ricordare il ragù di donna Rosa in “Sabato, Domenica e Lunedì”.
Quando in teatro oltre ai sensi della vista e dell’udito, furono allertati per la prima volta quelli dell’olfatto, perché Eduardo fece dirigere i profumi del ragù verso il pubblico. Eduardo in cucina – racconta sua moglie Isabella – non buttava nulla, poiché conosceva a fondo tutte le potenzialità dei prodotti di Napoli e della Campania e, soprattutto, ci metteva l’anima, dialogava con il cibo con calma e pazienza, cercando di comprenderne l’essenza e il modo con cui trattare ogni alimento. Abbiamo perciò davanti non un ricettario di cucina napoletana, ma uno scritto filosofico in versi su come affrontare la vita, o meglio, sull’essenza della vita stessa.
Il primo capitolo del libro è dedicato a Sua Maestà “‘O Rraù”, il ragù napoletano. Il testo riporta un brano integrale della conversazione della pièce teatrale tra Donna Rosa, la domestica Virginia che piange affettando chili di cipolle e i commensali della domenica, serviti con sapienza da Donna Rosa che affonda il mestolo nella zuppiera di 2 chili di maccheroni fumanti. Chiacchiericcio allegro di tutti durante il servizio e poi il “ sacro silenzio del ragù”. La commedia è del 1959, in quegli anni Eduardo seguiva la classica ricetta napoletana, quella della poesia recitata nella commedia:
“O ‘rraù
‘O rraù ca me piace a me
m’ ‘o ffaceva sulo mammà.
A che m’aggio spusato a te,
ne parlammo pè ne parlà.
io nun songo difficultuso;
ma luvàmmel’ ‘a miezo st’uso
Sì,va buono:cumme vuò tu.
Mò ce avéssem’ appiccecà?
Tu che dice?Chest’ ‘è rraù?
E io m’ ‘o mmagno pè m’ ‘o mangià…
M’ ‘ a faja dicere na parola?…
Chesta è carne c’ ‘ a pummarola “.
qui la poesia in musica cantata da Roberto Murolo su Musica di Pino Daniele.
Poi, con gli anni, elabora una sua versione personale, che non prevede più sugna, lardo, pancetta e strutto, e sostituisce la passata di pomodoro all’acqua o al brodo. Il ragù si deve fare con la conserva di pomodoro , quella che si faceva in casa e che, ai tempi, si vendeva sfusa in salumeria nella carta oleata. Oggi vista la fatica per fare la vera conserva, si usa il concentrato di pomodoro.
Seguono tutte le possibili ricette da fare con il ragù auspicabilmente avanzato come : le uova al purgatorio, il riso al ragù, i maccheroni al ragù infornati, ricordando infine che il ragù è il protagonista di due piatti principe della cucina napoletana: il sartù di riso e le lasagne di Carnevale.
Tanti gli aneddoti golosi come la merenda preferita da Eduardo bambino, frutto dell’ingegno di nonna Concetta: una fetta di pane abbrustolito sulla carbonella, parcamente spalmata di strutto e insaporita con zucchero e cannella. Ogni tanto, più avanti negli anni, Eduardo sfuriava: “Mò dicono che la sugna fa male al fegato. ‘Nà fesseria! A quest’ora sarei morto se fosse vero!” Poi l’inizio vero e proprio del poemetto in dialetto napoletano, un vero e proprio trattato merceologico e filosofico al tempo stesso che narra la natura più autentica, ormai perduta, della napoletanità. Le ricette antiche spuntano tra i versi: i maccheroni lardiati, il timballo, i tubetti piselli e pancetta, la pasta “mischiata” con la zucca, il riso alla pescatora, e i tanti modi napoletani di cucinare il riso: con i peperoni, con le melanzane, le zucchine e i fiori di zucca, aglio, burro e parmigiano, con i carciofi , olive e capperi aglio e olio.
E ancora il piatto principe, il sartù di riso (qui la ricetta di Raffaele Bracale) “turzuto e àveto, ova toste e purpettine, cu ‘pisielle e chin’ ‘e provola, parmigiano e fegatine, zuco ‘e carne e a ffuoco lento fin’a quanno ll’è cuociuto;quanno è cuotto o sta a mumento, n’avvampata e ll’è arrussuto. Rrobb’ ‘e Napule, gnorsì.”
I versi raccontano gli infiniti modi di cucinare le verdure a Napoli, la patria dei “mangia foglie” e ancora il vino di Lettere con la scorza di mandarino, passando poi alle interminabili e fantasiose ricette con gli spaghetti di Nonna Concetta: “ a vongole fujute”, dove le vongole non sono scappate, ma semplicemente costavano troppo. E ancora gli spaghetti alla “saponara”: i saponari erano piccoli ambulanti che girando per le case, scambiavano sapone in cambio di roba vecchia. Eduardo aveva dato questo affettuoso soprannome al suo amico Navarra, antiquario in Piazza dei Martiri a Napoli e spesso si recava a trovarlo per mangiare con lui in negozio e Navarra gli preparava una ricetta veloce e saporita. 500 gr di spaghetti, 100 gr. di capperi disalati, 300 gr. di olive di Gaeta snocciolate, 100 gr. di olio e 4 – 5 cucchiai di pane grattugiato.
Eduardo, da profondo conoscitore della storia della cucina napoletana, cucinava tante zuppe di verdure, tra tutte “ ‘A zuppa ‘e staggione”. ‘
A staggione per i napoletani ha una durata indefinita, è la stagione dal tiepido al caldo, in genere da maggio a ottobre. Questa zuppa si cucina al tempo di fave, piselli, carciofi, patatine e cipolline novelle. E’ una ricetta ancora popolare a Napoli, ci vuole “pacienza” per sgranare piselli e fave, strofinare le patate con un panno ruvido, appena un po’ bagnato, pulire le cipolline novelle e i carciofi, insomma ci vuole tempo. A casa mia si fa una volta l’anno e non me la perdo mai. La ricetta di Eduardo è più alleggerita rispetto alla tradizionale che vuole anche pancetta e lardo che danno sapore: “ 600 gr. di patatine novelle, 800 gr. di fave piccole sgusciate, 600 gr. di pisellini sgusciati, 500 gr. di cipolline novelle, 6 carciofi, olio e prezzemolo.
Napoli città di mare, Eduardo amava il pesce all’ “acqua pazza”: scorfani, gallinelle, spigole, pezzogne e orate. La ricetta ha molte versioni, gli ingredienti base sono comunque il pesce, l’aglio, l’olio, i pomodori, il prezzemolo, il vino bianco, l’acqua e il sale.
La pazienza sembra essere il filo conduttore delle ricette che Eduardo amava preparare e che sua moglie Isabella ha raccontato. Tra queste la fantastica frittata di cipolle di Concetta De Filippo.
La frittata sembra un piatto facile a farsi, in realtà, quella napoletana di cipolle ha tra gli ingredienti, oltre a : 100 gr. di olio d’oliva, 1 kg di cipolle, mondate, affettate, tenute a bagno per un’ora e poi asciugate, 10 uova, 50 gr. di burro, o strutto, anche una bella dose di “Santa Pacienza”, quella che i napoletani hanno da secoli. Questo libro è un’esperienza sensoriale ricca di insegnamenti per vivere meglio. Ecco allora le ricette con le verdure, le melanzane “ a scarpone”, il napoletanissimo “gattò” di patate, i profumatissimi peperoni al gratin, da cucinare in abbondanza per gustarli il giorno dopo freddi insieme a una buona mozzarella, le parmigiane di zucchine e melanzane, per chiudere con la mitica insalata di rinforzo, che una volta serviva per arricchire i poveri menù natalizi ed oggi è un gustoso di più che dura tutto il periodo delle feste, perché si rinforza continuamente, con altro cavolo e sottaceti. Gli ingredienti: 600 gr. di cavolfiore lessato al dente e tagliato a pezzi, 150 gr. di papaccelle piccanti tagliate a strisce, , 100 gr. di caperi dissalati, 150 gr. di olive nere di Gaeta snocciolate, 5 acciughe salate a pezzetti, 6 taralli con i finocchietti, 6 olive verdi, aceto e olio. Eduardo adorava i dolci , soprattutto la Pastiera e gli Struffoli, tuttavia dal 1954 cominciò a soffrire di diabete e allora s’inventò qualche ricetta golosa non pericolosa per la sua salute, come le “mosciarelle alla Mont Blanc”, ossia le castagne secche, lessate, schiacciate e lavorate con il dolcificante al posto dello zucchero, ricoprendo il tutto di panna fresca.
La mattina, come a fine pasto, si consumava per Eduardo il cerimoniale del caffè con la napoletana, che si riassume perfettamente nell‘immaginario dialogo cult con il Professor Santanna cult di “ Questi Fantasmi e nella conversazione tra Luca e sua moglie Concetta in “Natale a casa Cupiello”. “Si cucine cumme vogl’i’” si chiude con la descrizione di Eduardo su come, nei primi anni del Novecento a Napoli si abbrustoliva il caffè. La cerimonia dell’ “abbrustulaturo”, avveniva in casa delle famiglie meno ricche e di quelle patite per il caffè circa ogni due settimane a seconda del consumo. Si comprava il caffè crudo e con la solita “Santa Pacienza” si abbrustoliva. L’ “abbrustulaturo” era un cilindro da 30 a 60 cm, per circa 15 cm di diametro, da un lato aveva un lungo perno, dall’altro una manovella. I chicchi crudi si infilavano nel cilindro da uno sportellino centrale chiuso da un gancetto.
Il fornello era una specie di scatola di metallo rettangolare su piedini, sulla griglia del fondo si accendeva la carbonella e, il nonno o la nonna di turno, cominciava a girare la manovella. La cerimonia si doveva svolgere sui balconi, perché in cottura i chicchi di caffè sprigionavano un fumo intenso insopportabile in ambienti chiusi, insieme ad un delizioso irresistibile profumo, per il quale anche Eduardo, allora bambino, senza il permesso di berlo, saltava giù dal letto. Da allora quell’aroma mattutino divenne per lui irrinunciabile per tutta la vita: “ahhh”, dopo aver bevuto il caffè, significava per Eduardo, piacere, soddisfazione, appagamento, golosità, sorpresa e rapimento.
Lo stesso “ahhh” che noi napoletani ancora pronunciamo dopo una tazza di caffè fatta con tutti nostri crismi.
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