Durante le polemiche seguite all’ingresso delle pizze di Franco Pepe da Princi a Milano con Visintin e il gelatiere Soban partiti lancia in testa contro l’artigianato di qualità, mi sono reso conto davvero è necessario spiegare meglio la pizza napoletana.
Infatti definire poco cotta e gommosa una pizza di Franco Pepe è una cosa paradossale che non può essere tecnicamente possibile. Sarebbe come dire che Vincenzo Pagano è uno dei veterani della critica gastronomica italiana.
Il problema è ben semplificato da questa foto.
A sinistra c’è una margherita napoletana classica, di Pasqualino Rossi in questo caso. Come vedete man mano che si va dal cornicione al centro la pasta, già sottile, si fonde persino alla vista con gli ingredienti.
Se la sollevassimo non resterebbe dritta, si piegherebbe e il pomodoro e la mozzarella scivolerebbero giù.
Questo risultato è dovuto all’abitudine napoletana, ancora oggi molto diffusa, di mangiare la pizza con le mani, piegata a libretto. Per farlo deve infatti chiudersi come un libro. Per piegarsi ha bisogno di un impasto molto idratato, in genere dal 65 al 70/73 per cento.
Da questo modo di mangiare, camminando per strada, nasce il gusto per cui in bocca c’è una fusione perfetta del lato panoso, del pomodoro e della mozzarella. Man mano che, mangiando, si sale verso il cornicione, sempre ben alveolato (da qui i vede se la pizza ha ben lievitato e se è stata cotta bene), che viene usato per pulire la bocca.
In tempi di miseria, quando la fame era davvero tanta, i ragazzini aspettavano che i clienti delle pizzerie buttassero il cornicione per poterlo mangiare.
La pizza a destra è invece una pizza non napoletana: come si vede lo spessore del pane è molto più alto, visibile, si piega con molta difficoltà. Fermo restando che è questione di gusti e di abitudini, è oggettivo che nella seconda gli elementi siano meno fusi perchè la quota pane è molto più evidente.
Questo è il motivo per cui da Napoli in su c’è l’abitudine di farcire la pizza in modo più abbondante, proprio per cercare di riequilibrare il sapore ed evitare il senso di asciutto che lascia il pane al palato. (A Napoli mangiavano asciutto quelli che si portavano il pane perchè lavoravano fuori casa o i contadini delle campagne mentre i signori mangiavano cucinato).
Capirete che ogni pizza va giudicata in base ai suoi parametri. E’ però indubitabile che la prima richiede molta più abilità nell’impastare, nel gestire gli ingredienti e nel cuocere al forno a legna.
Non a caso la seconda è il modello di cui si è impadronita la grande industria alimentare multinazionale perché più facilmente gestibile e replicabile.
Ecco perchè Visintin, e Soban su Scarti di Gusto, criticando la pizza di Pepe oltre a dimostrare estrema ignoranza della materia (ma sul web purtroppo è frequente pensare di prendersi la laurea con un po’ di copia e incolla), si sono distinti per essere solo soldatini del gusto omologato e globalizzato.
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