di Fabrizio Scarpato
Sono l’ispettore Michelin, Gustave Michelin. Coltivo crisantemi.
Il crisantemo è un fiore robusto e nerboruto, più grande di una margherita, più simile a una gerbera, ma con uno stelo più resistente. Insomma il crisantemo, la variante coi petali d’anemone, quella che piace a me, è un fiore che si nota, forte, che puoi vedere anche da lontano.
Coltivo i miei crisantemi sul retro della piccola casa in cui abito, a Honfleur, in Normandia. A dire il vero la casa non è mia, anzi non sarebbe nemmeno una casa, essendo la Gendarmerie del paese. Gli uffici al piano terra, l’abitazione al piano rialzato. Spesso confondo le due cose, tanto che non so qual è l’una e qual è l’altra: in linea di massima è casa dove non ci sono mia madre e mia sorella, che vivono con me. Per un uomo fatto è snervante vivere con l’obbligo delle pattine ogni volta che entro in casa, incrociare sguardi severi se inavvertitamente sposto un centrino di pizzo: anche perché i centrini sono dappertutto, persino nei quadri alle pareti, invariabilmente ricoperte di carta floreale, per lo più rose e gigli, quelli fiorentini, in finto broccato. E poi il profumo di mele acerbe, vagamente acido, forse tendente alla niveina, con sottili nuances di canfora e incenso, odore di sacrestia. Non potrebbe essere altrimenti, mia madre sbriga le faccende in parrocchia, part time. “L’armonia e la pulizia della casa sono l’armonia e la pulizia dell’anima” dice il priore. Io odio il priore, m’ha scassato i camemberts. Tanto più che tutto quell’affastellamento di profumi e lindore non riesce ad eliminare la puzza di pesce, di granchi e di ostriche che tutti qui ci portiamo addosso.
Solo Sébastien mi capisce, sicché vado spesso giù in cantina, che poi sarebbero le celle della prigione, a parlare con lui. Ce ne vorrebbero di Chabal, durezza e lealtà, forza e fierezza: mica come quella signorina di Morgan Parra che è uscito groggy dopo che Richie McCaw con una ginocchiata gli aveva rassettato lo zigomo. Sébastien si sarebbe alzato e al primo placcaggio gli avrebbe fatto sentire le zanne dell’Orco al tuttonero, nero anche lui, ma di più. Il rugby è scuola di vita, ma guardando la gigantografia di Chabal sogno una mischia impuntata sul vecchio parquet di casa, le mani dei piloni aggrappate ai centrini, le teste sotto i tavoli, i tacchetti delle terze linee a sbranare la carta da parati del tinello marron. Non sopporto l’ordine, preferisco il disordine, ma con precisione: un rugbista vive negli occhi dell’avversario, nelle orecchie che si disfano nel contatto belluino, vive il momento. Gli battono le tempie e sa cosa fare. Mi piacerebbe, se solo ne fossi capace. Non mi faccio mancare un terzo tempo con Sébastien e bevo un bicchiere di sidro. Da solo.
Il sidro mi tiene compagnia nelle mattine fredde e nebbiose, quando non ho nulla da fare, il che accade spesso, qui a Honfleur. Mi siedo a un tavolo del bistrot di Babette, Le Chat qui Peche: un sidro, sei ostriche e una birra mi rimettono in pace col mondo e con mia sorella che lavora lì, proprio davanti alla banchina dei pescherecci, belli a vedersi ma terribilmente puzzolenti. Annette si fa un bicchierino insieme a me, ma credo che col sidro si profumi anche la pelle: se la fa con un pescatore, e ogni tentativo di nasconderlo si rivela un fallimento.
Sebbene le mie donne non sappiano andar oltre qualche frittella di mele e una dignitosa versione della trippa alla Caen, a me piace mangiare, possibilmente da solo. Almeno quando non esco con la signorina Paulette. Una che sa stare per conto suo, che sembra serena e sa regalarmi un sorriso. Le piace il rugby, in particolare due giocatori italiani che giocavano a Parigi nello Stade Francais: sono fratelli, hanno i riccioli. Bravini, gli italiani son sempre bravini: hanno tutto, ma gli manca sempre trenta per far trentuno. Come in cucina, per esempio. Ecco, lì la signorina Paulette non mi segue, ma le piace lo Champagne, quasi quanto il mio naso scosceso, ripido come i tetti neri delle case del Vieux Port. Mia madre non sa nulla di noi, per questo mi ostino a chiamarla signorina, per non sbagliarmi nel caso la incontrassimo. E per non prendere confidenza.
Comunichiamo coi fiori, crisantemi, non c’è bisogno di dire. Lei la mattina passa in bicicletta davanti alla Gendarmerie: lo so che passa, ma non mi affaccio, per discrezione e per gioco. Io metto sul davanzale della finestra un vaso di fiori, crisantemi recisi: uno significa “facciamo due passi stasera?”, due stanno per ci vediamo a pranzo, tre crisantemi bianchi significano ceniamo insieme, ho la mattina libera. La signorina Paulette passa e sorride, a volte prende un fiore e fugge via, annusandolo contenta e maliziosa: va da sé che quando ne prende uno di tre, io provo ancora un tuffo al cuore. Guardo Chabal e mi bevo un bicchierino.
Parbleu, ma perché proprio i crisantemi? Perché non mi piacciono le cose scontate, non mi basta la prima risposta, il giudizio a priori. Sarà deformazione professionale, ma questi fiori meritano di più: così ho deciso di coltivarli, quasi una rivincita, la libertà di comunicare come cazzo mi pare la mia stitica felicità, e una goccia di rispetto anche nei lori confronti. Dei crisantemi intendo.
Sì però i crisantemi fioriscono tra ottobre e gennaio, dice il solito scassacamemberts in un angolo del culo del mondo. Sébastien lo guarderebbe dritto negli occhi e dopo essersi ravviato i capelli madidi, lo asfalterebbe sotto il suo quarantasei di piede. C’è crisantemo e crisantemo: molte specie fioriscono in autunno, altre come il chrysantemum hosmariense, fiorisce tra aprile e ottobre. Per non farmi mancare nulla ho costruito una piccola serra dietro il muro di pietra, accanto alle ortensie di mia madre, vicino all’armeria: non si apre bene la porta, dell’armeria intendo, ma tanto serve a poco. Schiacciato sotto il polpaccio di Chabal il saputello potrebbe osare una deduzione, dissimulando la stretta con una smorfia di sghignazzo: ma allora tra febbraio e aprile… niente? Nel sibilare con la bava alla bocca, il bastardo libera finalmente una mano e agita velocemente pollice e indice, ben tesi. A parte il fatto che potrei anche lavorare, o andare in barca a vela a rotelle sulla spiaggia, o che saranno cavoli miei, mi tocca informare dell’esistenza dei multicaule o dei morifolium, che son rispettabilissimi crisantemi da vaso: e così saranno un vasetto, due, tre. Piccoli e perenni, croccanti e scrocchianti, come il frantumarsi della mascella del tipo sotto la spinta dei tacchetti dell’Orco. Per la precisione.
A Deauville c’è un bel posto lungo le planches, tra mare e spiaggia, tra ombrelloni annodati e cavalli al trotto: fanno un agnello pré salé coi controfiocchi, roseo, saporito, qualche verdura dell’orto, una composta di mele. Buono. Piace anche alla signorina Paulette: solo un pretesto, forse, per bere il suo Champagne preferito, morbido come la sua pelle. Le brillano gli occhi. Mai come quando, entrando nel locale, sussurro con smorfia ammiccante da agente segreto “sono l’ispettore Michelin, ho prenotato un tavolo”. I camerieri sorridono, almeno quelli che mi conoscono, ma in fondo stanno al gioco e per Paulette non manca mai una fetta di tarte tatin, un gelato, un bicchierino di Pommeau e un refolo di spensieratezza. E’ vero, ho detto Paulette, perchè è troppo bella quando ride. Dopo il suo sorriso non restano che le stelle del cielo.
All’alba mi avvio lentamente lungo il mare, le luci del porto di Le Havre all’orizzonte, manco fossi Trintignant in quel film di Lelouche. Divoro un croissant caldo e me ne torno senza far rumore nella cella numero uno: Sébastien Chabal mi guarda truce, ma in fondo è un bravo ragazzo. Caro, vecchio Seb, facciamoci un Calvados.
*** Siccome il mondo è fatto anche di tonti, sarà bene precisare esplicitamente che questa lettera è la solita magnifica esibizione letteraria del mito Fabrizio Scarpato
Del resto, abbiamo visto che c’è anche la nuova moda di trasformare in lettere ad personam i comunicati inviati a più referenti e per non rosicare abbiamo ceduto a questo vezzo:-)))