di Francesco Raguni
L’Italia è un Paese che gode di una fortuna di cui pochi possono fregiarsi, dato che può essere raccontata anche tramite la produzione enoica di un determinato territorio. Grazie alle storie di uve, vignaioli ed etichette ogni territorio diventa un nuovo mondo da scoprire, la cui essenza si racchiude perfettamente in un semplice calice. Si prenda il caso dell’estremo Nord – Est italiano, zona d’elezione di uve come la Vitoska e la Malvasia Istriana, che sabato 8 giugno è stato protagonista di una masterclass ad hoc a corredo dell’evento vitivinicolo catanese “Piccolo è bello”.
Ma cosa intendiamo per estremo Nord – Est italiano? Sicuramente si intende una zona che, nonostante sia stata una delle regioni più colpite all’inizio del secolo scorso dalla peronospora, ha trovato la forza di ripartire, ergendosi a modello di ripresa. Scendendo più nel dettaglio, comunque, il riferimento alla provincia di Trieste è abbastanza chiaro.
Si tratta di una delle più piccole della penisola, considerando che comprende meno di 10 comuni. Grazie anche alla sua vicinanza al confine con la Slovenia, in questa zona hanno convissuto e convivono tutt’oggi diverse culture.
La rinascita del Friuli e la Vitoska in purezza
Il nostro viaggio inizia con il metodo ancestrale di Milos Skabar. Ci troviamo sul mare, nellazona di Breg, lì dove un tempo la viticultura era la regina delle attività.
Abbandonata nel ‘900 come conseguenza delle due guerre che hanno devastato questo secolo, è stata ripresa soltanto di recente. Un tempo qui si produceva una bollicina che nulla aveva da invidiare al vicino prosecco. “Prosekar” riporta l’etichetta che, al contempo, raffigura una donna con un antico costume da giorno di festa del luogo.
Si tratta, per l’appunto, di un vino rifermentato in bottiglia, realizzato con Vitoska, Malvasia Istriana e Glera. La nota aromatica spicca immediatamente, per poi cedere il passo a un bouquet di frutta bianca.
Tuttavia, la Vitoska, uva che fino a vent’anni fa non veniva impiegata se non in blend, in questi tempi moderni di riscoperta, regala anche prodotti altamente identitari se usata in purezza. Così si spostiamo dal Flysch triestino, suolo marnoso e arenario tipico della costa, all’interno del Carso, dove sotto il terreno vi è un imponente strato di calcare, che al calice ritorna in maniera totalizzante. Basti pensare che per piantare la vite in questi contesti bisogna trapanare il suolo ad oltranza con i martelli pneumatici. Dall’uva, il cui nome deriva dallo sloveno e che si dice che fosse il vino dei cavalieri, nasce proprio “Vitoska”, vino bianco, fresco con una spiccata nota di pera.
I macerati
È poi il turno di un altro produttore, quale Zahar. Così, mentre si agita il terzo calice del pomeriggio, si scoprono tradizioni, come la Frasca, che per gli autoctoni dell’estremo nord – est sono più che conosciute. Si tratta di una pratica che risale all’impero austroungarico. Ai tempi, i contadini del luogo erano soliti apporre – per un determinato periodo dell’anno – un ramoscello di edera fuori dalla loro cantina. Questo gesto era un messaggio per indicarne l’apertura e attirare le persone per vendere i loro prodotti. E con Zahar arriva anche il primo macerato della masterclass. Anch’esso dal nome Vitoska, ma sta per quattro giorni a contatto con le bucce e che affina solamente acciaio. Al naso offre sentori di erbe aromatiche e note salmastre.
Proprio nell’ambito dei macerati, si torna ai vini di Milos con Monkolan, un blend di vitoska, malvasia istriana, glera e tokaj (che un tempo, racconta il vignaiolo, veniva piantata ed impiegata per aumentare il grado zuccherino dei vini, problema che – ad oggi – con il cambiamento climatico non sussiste più). Un vino che passa prima in anfora e poi in acciaio, che potrebbe affinare anche in legno, ma che volontariamente ne viene tenuto alla larga per non snaturare troppo il vitigno. Al naso regala una frutta gialla impetuosa, in bocca una non indifferente venatura sapida.
E così giungiamo quasi alla fine del percorso. Questa volta siamo a 3 km di distanza dal confine con la Slovenia, nei pressi del castello di Mocco, in una zona dove nel Medioevo la vite era talmente coltivata che si dovette porre un argine a questo fenomeno mediante un apposito editto, anche perché ciò andava eccessivamente a danno delle altre coltivazioni. “Soncek” – che vuol dire “piccolo sole” in sloveno – nasce proprio qui, in un vitigno che da ben 80 anni è di proprietà della famiglia Zahar, da un blend di Vitoska, Malvasia e Friulano. Inoltre, contrariamente ai precedenti, affina un anno in legno.
A chiusura una Malvasia in purezza. Un vino quasi tendente al giallo aranciato, con note mielose e di frutta secca, che – se odorato alla cieca – potrebbe ricordare persino un Passito di Pantelleria. Il suo stesso produttore racconta che questo prodotto enologico è nato nel 2019, grazie ad un’annata dove le uve sopravvissute alla grandine sono rimaste sulla pianta fino ad agosto inoltrato e hanno proseguito ulteriormente la loro maturazione.
Scriveva Alda Merini nella sua poesia “Sete perenne” «a me piacciono […] i calici di vino profondi, dove la mente esulta, livello magico di pensiero / troppo sciocco è piangere sopra un amore perduto malvissuto e scostante, magico l’acre sapore del vino indenne».
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