di Alfonso Sarno
“Non seguo un percorso logico, studiato a tavolino ma scelgo, ogni anno, un argomento che mi intriga: così sono nati i miei libri dedicati al caffè, ai gelati, sorbetti e granite, alla mozzarella, alle fritture ed alla pizza. Ora è toccato alla birra, molto diffusa ed amata al Sud e che ha avuto per lungo tempo Napoli tra i suoi principali centri di produzione”. Con elegante nonchalance Lejla Mancusi Sorrentino, appassionata ricercatrice della grande tradizione gastronomica napoletana racconta il suo ultimo raffinato lavoro “La birra. Storia della bevanda più diffusa nel mondo” pubblicato da Grimaldi & C. Editori: un intrigante viaggio nel mondo del “luppolo nobile” dove realtà, leggenda, scienza, medicina, religione, letteratura e magia si confondono piacevolmente, arricchito da illustrazioni e fotografie d’epoca e da 63 ricette – dagli antipasti ai dolci ed ai dessert – che lo vedono tra gli ingredienti. Centoquarantadue invitanti pagine che ripercorrono la storia dell’aromatica, gustosa bevanda leggermente alcolica ed oggi diffusa in tutto il mondo da quando “quel primordiale miscuglio d’acqua e chicchi d’orzo via via si è trasformato, arricchendosi continuamente, cui va il merito di avere contribuito alla trasformazione degli uomini primitivi da nomadi a stanziali e alla formazione dei primi villaggi proprio per dedicarsi alla coltivazione dei cereali”. E per secoli considerata di serie b, sorella povera del vino mentre, invece, secondo lo studioso statunitense Robert M. Best, autore del libro “L’Arca di Noè e l’epopea di di Ziusudra” il miracolo delle nozze di Cana va riscritto. Sì, perché Gesù Cristo avrebbe trasformato l’acqua non in vino ma in birra, più diffusa e di facile riperimento nella zona della Galilea. Una variazione operata dalla persone incaricata di tradurre la Bibbia nata dalla convincimento di sostituire la “sicera” ovvero la bevanda di cereali ritenuta volgare e grossolana con quella prodotta dalla fermentazione dell’uva più nobile e raffinata. “La birra – precisa – era ed è considerata una bevanda semplice, non impegnativa tanto d’essere abitualmente abbinata ad un cibo ugualmente basico come la pizza. Questo perché non abbisognava di particolari attrezzature”. Affidata soprattutto alle donne che la preparavano nelle cucine domestiche e la vendevano al dettaglio per contribuire al bilancio familiare e nobilitata, poi, dai monaci e monache del calibro di santa Ildegarda di Bingen che iniziarono a produrla nei monasteri riprendendo quel processo di fermentazione dei cereali praticato già nel neolitico ed attestato nell’ottavo millenio a. C. in Cina dove una primordiale birra veniva utilizzata anche in campo medico per i benefici effetti testimoniati poi anche dalla Scuola Medica Salernitana.
Insomma, una sorta di benefica e, soprattutto, economica droga che conferiva agli uomini una leggera ebbrezza rendendo più sopportabili fatiche, malanni ed avversità, effetti attribuiti nell’antichità all’intervento divino e che, lentamente ma con forza, conquistò il mondo facendo nascere numerose industrie. “Napoli – sottolinea Lejla Mancusi Sorrentino – fu una delle prime città a produrre birra. Fin dal XVIII secolo furono attive delle piccole imprese familiari ma cosa che pochi sanno la storia della birra in città è legata a Luigi Caflish che nel 1851 rilevò la “Birreria di Capodimonte”, modesto laboratorio artigianale situato nel quartiere Stella, dopo alcuni anni ampliato con l’acquisto, come recitava l’atto di vendita, di ‘un comprensorio di case con giardinetti, grotte incavate nel monte e spiazzo in piano’. La ditta fu trasformata nel 1904 nella “Società Anonima Birrerie Napoletane” e, poi, nel 1929 in “Birra Peroni Meridionale”, famosa per la sua “Nastro azzurro”. Eredità continuata oggi da giovani maestri birrai, bravi ed entusiasti che con i loro prodotti mietono premi e consensi, non soltanto in Italia, con le loro birre aromatizzate con i prodotti del territorio. A chilometro zero come le castagne, il miele e le erbe aromatiche.
Lejla Mancusi Sorrentino, La Birra
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