Le visite in azienda a Campania Stories: sette realtà imperdibili dall’ Irpinia al Cilento

Pubblicato in: I vini da non perdere

di Raffaele Mosca

Dall’ Irpinia al Cilento, passando per Punta Licosa, le aziende campane visitate nel corso di Campania Stories.

 

In Irpinia

Tenuta Sarno 1860

Non tutti i mali vengono per nuocere: se Maura Sarno avesse passato l’esame da notaio e fosse riuscita a seguire le orme di suo padre, oggi saremmo orfani di una delle migliori interpreti del Fiano di Avellino. La sua scelta produttiva è stata da subito radicale: solo un vitigno, solo uve da vigne sopra i 600 metri a Candida, piccolissimo comune che, in passato, non ha mai avuto grande risalto e che, invece, oggi è nel novero dei Grand Cru del Fiano.

La produzione si svolge con approccio “garagista” al 200%, nel senso che la cantina è proprio ospitata nel garage della casa di famiglia alle porte di Avellino. A garantire costanza qualitativa c’è la consulenza del super-winemaker campano Vincenzo Mercurio, ma la “cazzimma” di Maura prevale in ogni frangente e si traduce anche in un certo animo sperimentalista: al fianco del cocco di casa Sarno 1860, ha inserito uno Charmat fuori dai soli tracciati, un’altra versione di Fiano, “Emme”, con leggera macerazione sulle bucce, e l’ Erre, riserva che, paradossalmente, esce prima del 1860. “ È una questione di rapporto tra affinamento in acciaio e bottiglia – ci spiega Maura – il Sarno 1860 sta meno tempo in acciaio, ma poi affina più a lungo in bottiglia, per uscire dopo più di tre anni; l’ Erre, invece, sta più tempo in acciaio sulle fecce fini ma poi trascorre meno tempo in bottiglia.”

 

Colli di Lapio

Se oggi il nome di Lapio, paese di poche anime a un quarto d’ora da Avellino, è sinonimo di grande Fiano, è per merito di Clelia Romano, la signora del bianco irpino che nell’oramai lontano da 1994 ha cominciato a produrre bianchi di straordinaria purezza da vigne tra le più alte di tutte l’Irpinia (550 – 630 s.l.m.). Dagli esordi ad oggi l’azienda non è cambiata più di tanto: le dimensioni sono rimaste le stesse – 12 ettari, perlopiù concentrati nella contrada Arianello – ma la notorietà è aumentata considerevolmente, soprattutto al di fuori dei confini nazionali.

Merito di un grandissimo Fiano “classico”: garanzia in gioventù – anche se a ritardare un pelino l’uscita in commercio non farebbero peccato! – e anche nel medio e lungo raggio: la 2015 stappata in cantina si è rivelata freschissima nonostante provenga da un millesimo caldo e precoce . Anche i rossi mi sono parsi molto forma: l’ Aglianico di Lapio fa forza anche lui sulla gentilezza più che sulla potenza e la scelta di rinunciare ai legni piccoli a partire dal 2019 ha rafforzato lo stile sottrattivo.

I Favati

Rosanna Petrozziello e suo marito Giancarlo hanno la lungimiranza di chi ha fatto gavetta in altri settori prima di approdare alla viticoltura: lei, in particolare, è stata direttrice di una filiale di banca di zona. Sarà per questo, oltre che per la volontà di lasciare un’azienda strutturata e ben rodata alle figlie, che di recente ha deciso di firmare un po’ di cambiali per allargare consistentemente le tenute familiari, inglobando un’ importante proprietà nella DOCG Taurasi che per trent’anni è stata affittata da un colosso della zona.

Da quegli appezzamenti – tra i quali sono presenti ancora vigne di Aglianico antichissime – verranno fuori nuovi rossi e un bianco da Coda di Volpe, che si andranno ad aggiungere a una gamma già molto variegata. La punta di diamante allo stato attuale è il Pietramara: tra i bianchi più premiati della Campania, sempre costante nel mettere insieme immediatezza espressiva e sostanza per i lunghi affinamenti. La versione con Etichetta Nera esce con un anno di ritardo, mentre la Riserva (Etichetta Bianca) arriva sul mercato dopo più di tre anni. Bene anche il Greco Terrantica, che segue la stessa logica, così come il Taurasi Terzotratto: tenere l’Aglianico in cantina per tanti anni non è sempre una scelta azzeccata, ma qui il frutto è ancora in bella vista e scongiura qualunque deriva ossidativa.

Amarano

Una piccola realtà montemaranese che sta riacquistando nuova linfa vitale grazie alla nuova collaborazione con Andrea Farinetti e con il gruppo Fontanafredda. I 5 ettari di proprietà sono tutti nella zona clou della DOCG Taurasi, ma la titolare Adele Romano attinge anche da una stretta cerchia di piccoli conferitori per produrre i bianchi. Il Taurasi Principe Lagonessa è una vera sorpresa: ha quella finezza balsamica – a metà tra rosolio e Vermouth – che spesso viene occultata da legni soverchianti, ossidazioni volute o non volute, scarsa precisione enologica. Al grand tasting c’era una ‘14 molto in forma, ma la 2009 assaggiata in cantina si è rivelata ancora più performante.

Interessante anche la Coda di Volpe, bianco in zona di Aglianico che, pur avendo un’acidità relativamente bassa, riesce ad evolvere bene per almeno cinque anni dalla vendemmia. Classico il Fiano da vigna d’alta quota a Candida.

Villa Raiano

A sentirlo dire a freddo, si fa fatica a credere che la famiglia Basso di Villa Raiano abbia alle spalle un gruppo oleario con un giro d’affari da 75 milioni l’anno: la sensazione, aldilà della cantina patinata il giusto e con vista mozzafiato, è quella di avere a che fare con i soliti viticoltori irpini senza grandi grilli per la testa.

L’azienda, con i suoi 27 ettari che danno più o meno 300.000 bottiglie, sarebbe considerata “medio-piccola” in altri territori e invece, qui rientra nel novero dei “big players”. Brunella Basso, rappresentante della nuova generazione, non fa mistero della dicotomia che la contraddistingue: da un lato due linee base, di cui una dedicata alla GDO a partire dal 2020, e dall’altro una serie di vini haut-de-gamme da singola vigna. “ Se si potesse andare avanti producendo solo Cru saremmo molto contenti – riferisce Brunella – ma è  indispensabile diversificare la produzione”. E diversificare significa anche dare ampio spazio all’hospitality in cantina, con svariati eventi privati e non nel corso dell’anno. Di certo una scelta non comune in un territorio che patisce la carenza di grandi strutture enoturistiche e/o ricettive.

 

In Cilento

Tempa di Zoè

Ci spostiamo in Cilento per incontrare Bruno De Conciliis, un vero e proprio intellettuale del vino: forte di studi al DAMS di Bologna, attivismo sociale negli anni della gioventù, esperienze in alcune comuni agricole che lo hanno avvicinato da subito al mondo della biodinamica. In passato ha collaborato con il guru Aleksej Podolinsky e contribuito a fondare Viticoltori De Conciliis – azienda di riferimento nel panorama cilentano – salvo poi ricominciare da capo ad un’età in cui molti cominciano a rilassarsi.

Tempa di Zoè è uno dei suoi tre nuovi progetti: un’ azienda fuori dai soliti tracciati con sede spalle di Agropoli. Una realtà nata come joint venture con Feudi di San Gregorio, che, dopo l’uscita del colosso irpino, è diventata una fucina d’innovazione: sforna vini insoliti anche dal punto di vista tecnico, come ad esempio un Fiano affinato in tonneaux, lo Xa, che contraddice il dogma secondo il quale quest’uva non vedrebbe di buon occhio il rovere (soprattutto se coltivata in zone assolate). Oppure uno spumante tutt’ora in via di elaborazione da blend di Aglianico, Fiano e Greco, e un rosso ancor più strano da assemblaggio da Cabernet Franc, Grenache e Aglianico. Poi c’è lo Zero, l’unico vino che si è portato dietro dall’esperienza in De Conciliis: sicuramente l’etichetta più canonica con la sua struttura ricca, avvolgente, irrobustita dall’affinamento in tonneaux e dai 16 gradi alcolici. “ Se dovessi concepirlo oggi, lo farei in maniera totalmente diversa – ci spiega Bruno – ma è nato in un’altra epoca ed è giusto che rimanga così”.

Il Colle del Corsicano

Chiudiamo con l’azienda più stupefacente tra quelle che non sono già state raccontate dalla stampa di settore: una piccola realtà gestita da Alferio Romito, allievo del professor Moio, che, dopo una laurea in enologia con tesi sul Fiano e un periodo di gavetta da un’icona cilentana del calibro di Luigi Maffini, ha preso in affitto tre ettari e mezzo di vigneto affacciato sul mare, nel cuore della tenuta di Punta Licosa: luogo bellissimo e dal fascino quasi mistico, che prende il nome dalla sirena Leucosia.

Un posto selvaggio dove fare vino è un’impresa da folli: si pensi che solo per arrivare dalla parcella alla cantina nella frazione San Marco di Castellabate in trattore ci vogliono circa quaranta minuti. Eppure Alferio ce la mette tutta: lavora gli appezzamenti in biologico, si prende la briga di vendemmiare per parcelle, partendo all’inizio d’agosto e finendo alla metà di settembre; produce vini che sprigionano la luminosità quasi abbagliante del luogo: più affini per allure mediterranea a quelli delle isole greche che a qualunque altro Fiano o Aglianico reperibile sul mercato.

I vini:

Colli di Lapio – Fiano di Avellino 2015

A sette anni dalla vendemmia, il Fiano comincia ad entrare nella sua finestra di massima godibilità: il frutto comincia a lasciare spazio a pietra focaia e gommapane, fieno e miele millefiori, arancia candita e un soffio di tabacco biondo. Sembra maturo e, invece, il sorso è ancora tutto incentrato sull’acidità tonica, che smorza i ritorni fruttati e mielati e conduce i giochi fino al finale lungo, raffinato, balsamico e fumè.

 

Colli di Lapio – Taurasi 2019

Un Taurasi gentile, profumato di marasca e rose macerate nell’alcol ancor prima che di cacao, grafite e tabacco mentolato. La botte grande era stata appena comprata è quindi un’inevitabile che ci sia una traccia di tostatura sul fondo del sorso, che, però, cede progressivamente il passo al frutto, all’acidità ben gestita e al tannino scalpitante che cadenza il finale soave su toni di kirsch ed erbe balsamiche. Buona la prima senza barrique!

 

Tenuta Sarno 1860 – Fiano di Avellino Sarno 1860  2016

Zenzero, pietra focaia, acacia e un tocco di lanolina che fa un po’ Chenin della Loira. Ha solo cominciato il suo percorso evolutivo: miele e un soffio d’idrocarburo compaiono sul fondo della progressione ancora incentrata sul frutto e sulla freschezza citrata, con finale lungo su toni di erbe di montagna. Il più performante di cinque vini assaggiati in una mini-verticale.

 

Tenuta Sarno 1860 – Fiano di Avellino Erre Riserva 2020

Soffi affumicati e di salamoia abbracciano mela renetta, limone candito, melone estivo, biancospino, anice e nocciola. La stessa sequenza riecheggia sul fondo della bocca completa: snella, verticale, ma anche glicerica e voluminosa. L’ equilibrio è fenomenale, la profondità pure. Consiglio di comprarlo ora e tenerlo da parte per almeno cinque/sette anni.

 

I Favati – Fiano di Avellino Pietramara Etichetta Bianca Riserva 2019

Da vigne a 450 metri di altitudine nel comune di Atripalda. Il profumo è già ampio e variegato:  spazia dalle erbe spontanee – camomilla e timo in particolare – a miele, anice, zafferano e un soffio d’idrocarburo. E’ un falso magro: nasconde la struttura imponente sotto lo slancio fenomenale. Non che non sia godibile oggi, ma una magnum di 2013 in perfetta forma dimostra che a tenerlo in cantina per un po’ non si fa  peccato.

 

I Favati – Taurasi Terzotratto Etichetta Bianca 2011

L’annata non è stata strepitosa. Eppure il quadro incentrato su spezie ed erbe officinali, con il frutto scuro e molto maturo a fare da sfondo, è molto allettante. Il sorso prosegue sulla stessa linea d’onda: generoso nella parte fruttata con ritorni di arancia amara e botanicals a smorzare. Il tannino ben assestato cadenza una chiusura di ottima distensione e precisione.

 

Amarano – Irpinia Coda di Volpe 2018

Cinque anni  il frutto lascia spazio a nocciola, marzapane, cappero e miele millefiori, un ricordo di fondo d’ idrocarburo. Non ha lo slancio di un Fiano o di un Greco, eppure segue lo stesso tracciato aromatico, con miele, nocciole e fieno che scandiscono la progressione ravvivata dal timbro sapido.

 

Amarano – Taurasi Principe Lagonessa 2009

Se quattordici anni non sono stati sufficienti a ridimensionare il frutto, venti non basteranno a domare il tannino ruggente, che, però, non sfocia nel secco e nell’amaro. Anzi è proprio il punto di forza di questo vino classico e intriganti: profumato di ciliegia sotto spirito, terra bagnata, cuoio, botanicals da Vermouth; vigoroso, ma dotato di ampio retro-olfatto officinale e sottilmente vegetale che, insieme alla parte fruttata ricca e al sopraccitato tannino, diventa garanzia di piacevolezza e durata nel tempo.

 

Villa Raiano – Fiano di Avellino Alimata 2013

Da vigna singola a Montefredane, a quasi dieci dalla vendemmia ha raggiunto la piena espressività, ma è ancora lungi dall’essere stanco. Pietra focaia e un soffio di cherosene anticipano fieno, camomilla, nocciole tostate, una folata balsamica e un accenno di miele millefiori. In bocca non ha perso un minimo di slancio: l’attacco è fortemente minerale, quasi gessoso, ma subito calibrato da frutto e miele che rimpolpano lo sviluppo e allungano la chiusura cremosa.

 

Villa Raiano – Irpinia Campi Taurasi Costa Baiano 2019

Vigne a 500 metri sul mare in zona Castelfranci, dieci giorni di macerazione in acciaio e poi 12 mesi in cemento e anfora di terracotta. Credenziali giuste per un vino fuori dai soliti canonici: profumato di fiori appassiti e ciliegie appena raccolta con un soffio selvatico a rendere il tutto più intrigante. Agile e spigliato, succoso e mordente al punto giusto; Aglianico si, ma con gentilezza e facilità di beva tutto meno che scontate. Molto più convincente di tanti Taurasi…

 

Tempa di Zoè – Xa 2020

Già dall’incipit ci si rende conto di aver a che fare con un Fiano molto sui generis: una sorta di anello mancante tra costa mediterranea e Chablis con questo cotè di erbe spontanee, ginestra, camomilla e mandorle tostata che anticipa guscio d’ostrica, pietra focaia e un soffio di spezie da rovere. Il sorso è molto coerente: avvolgente e cremoso senza essere pesante, anzi reattivo, salivante, lungo su toni di susina frammisti a miele e cappero selvatico. Una sorpresa!

 

Tempe di Zoè – Zero Supercampano 2019

Potenza di frutto notevole, quasi “Amaroneggiante”, che sposa tabacco, liquirizia, pot-pourri di fiori rossi, humus, a profilare una declinazione prepotentemente costiera dell’Aglianico. E’ bombastico, ruggente, denso e inevitabilmente caldo, ma calibrato da tannini perfettamente estratti e un guizzo d’ arancia sanguinella che prolunga la chiusura. Sicuramente non un vino “glou glou”, ma ha equilibrio encomiabile e personalità per niente banale.

 

Il Colle del Corsicano – Cilento Fiano Licosa 2022

Rispetto al Fiano irpino, siamo in tutt’ altro mondo: il frutto è sgargiante, goloso, come una macedonia d’agosto con un pizzico di erbe spontanee a condire. Le stesse sensazioni danno forma al  sorso ampio, goloso, con un cenno d’erba limoncella che lo rinfresca e un’ idea iodata di fondo che rasenta la pasta d’ acciughe. E’ estroverso, caloroso ma non caldo, marino – e marittimo – al 300%.

 

Il Colle del Corsicano – Cilento Aglianico Patrinus 2021

Principalmente Aglianico con un 5% di Primitivo. Ma il carattere dei vitigni rimane in seconda battuta rispetto al territorio: il naso è un condensato di carrube, giuggiole, erbe disidrate, eucalipto, mirto ed olive in salamoia. Cerco un’analogia e la trovo solo con qualche vino isolano o con un Carignano di Sant’Antioco. Sulla stessa riga il sorso: ampio e suadente, carico di frutto scuro e carnoso; il tannino appena asciutto ci riporta al mondo “Aglianico”, ma a prevalere è sempre questa mediterraneità ncontenibile: bacca di ginepro, resina, humus e foglia di fico delineano un finale immaginifico.

 


Dai un'occhiata anche a:

Exit mobile version