Si raccoglie il Pallagrello Bianco in questi giorni sulle colline di Castel Campagnano e tra un altro paio di settimane sarà il turno del Casavecchia.
Solo dieci anni fa una frase del genere avrebbe gettato nello panico tanto l’appassionato quanto l’esperto. Ma oggi parlare di Pallagrello, bianco o nero che sia, e di Casavecchia, univocamente, fa pensare ai due vitigni casertani che in questi anni hanno risalito la china dell’oblio. Magari, poi, corre il pensiero alle dolci colline tra il Taburno e il massiccio del Matese, a un passo da Limatola e dalla bella Caiazzo e ai nomi delle poche aziende che le lavorano. Tra queste, senza dubbio, Terre del Principe, l’azienda di Manuela Piancastelli e Peppe Mancini, che amabilmente gli amici chiamano “i principi”.
In un territorio come quello campano in cui i titoli nobiliari e le espressione di ottuso ossequio abbondano, dove “essere principe” può significare anche vessare a proprio piacimento il proprio territorio, in questo angolo delizioso della Campania settentrionale, il termine torna ad assumere il suo significato più vero: arte del vivere, gentilezza ed eleganza.
Concorda con i suoi ospiti, Manuela Piancastelli: “il vino somiglia a chi lo fa”. I vini di Terre del Principe, la cui realizzazione tecnica è saldamente nelle mani del professore Luigi Moio e dell’agronomo Gaetano Pascale, sono come questa coppia che qualche anno fa scelse il ritiro in campagna per coltivare il proprio amore. Quello per l’altro e per la terra.
C’è carattere, potenza, eleganza e una certa sontuosità nel bicchiere di Terre del Principe. Piaccia o no, dire che non si riconosca, è fargli torto grave.
La Campania in un ventennio ha moltiplicato esponenzialmente la sua offerta di vino: c’è un vino per ciascuno e ognuno ha il suo vino. All’estremo: “tutti fanno tutto, in ogni luogo e con qualunque cosa” per utilizzare un’efficace espressione di Moio.
La riconoscibilità, frutto della codifica e del perseguimento di un modello espressivo ben definito non solo non è cosa da poco, ma diventa indispensabile.
Terre del Principe in questo è riuscita e, dal 2007, dopo una serie di annate inevitabilmente “work in progress”, sembra aver agguantato l’obbiettivo definitivamente.
Di questo e di altro si è parlato durante la verticale che domenica ha concluso la giornata serena e conviviale con la quale l’azienda ha salutato la vendemmia 2010. L’incontro, guidato dal professore Luigi Moio che, con l’agronomo Gaetano Pascale, ha saldamente in mano, dai suoi esordi, gli aspetti tecnici – e scientifici per alcuni versi – dell’azienda, ha fornito degli elementi di riflessione molto interessanti sulle caratteristiche delle uve di Pallagrello e Casavecchia, sull’abusato concetto di tipicità e sull’analisi sensoriale dei vini.
Partendo dalla vendemmia 2003, anno nel quale Terre del Principe uscì sul mercato con Le Serole, Centomoggia, Ambruco e Fontanavigna (più recenti Vigna Piancastelli, Castello delle Femmine e l’ultimo: Roseto del Volturno)si è arrivati alla 2008.
I “viticoltori del Pallagrello e del Casavecchia”, come si fanno chiamare Manuela e Peppe, non nascondono la loro emozione e soddisfazione a poter presentare, tutte insieme, 4 annate di Pallagrello bianco, Le Serole, e 6 di Casavecchia, il Centomoggia. Nel mezzo, il raggiungimento di un altro obbiettivo: aver arricchito, con la propria esperienza, la letteratura scientifica sul comportamento in vinificazione di queste uve, prima di loro assente del tutto. In tal senso queste due verticali sono storiche e il loro racconto è cronaca utile ai posteri viticoltori.
La verticale di Pallagrello bianco Le Sèrole
Comunicare un territorio attraverso il vino, afferma Luigi Moio, significa utilizzare i vitigni che storicamente meglio si sono adattati a quel determinato contesto pedoclimatico e accettarli nelle loro peculiarità e nei loro pregi e difetti. Vale per il gaglioppo o il nerello mascale, scarichi di colore, come per l’asprinio, con la sua acidità viperina.
I vitigni storici, in ogni caso, sono quelli che meglio reagiscono alle possibili criticità di un’annata, così contenendo gli interventi dell’uomo. Se si decide di dire no alle sollecitazioni di quella parte del mercato che impone il proprio gusto – continua Moio nel suo ragionamento – il successo, nella scelta di un vitigno di territorio, si giocherà sulla capacità dell’insieme dei produttori (opportunamente sostenuti dalle istituzioni) che lo vinificano di agganciarsi indissolubilmente a un prodotto o preparazione tipica di gran rilievo.
Il pallagrello
Si tratta di un’uva, spiega Moio, dal grappolo piccolo e compatto- con acidi piccoli e dalla buccia sottile – che matura in maniera molto omogenea.Dal punto di vista fenotipico è perfettamente in linea con le esigenze della produzione. In tal senso, somiglia allo Chardonnay (ben lontana è, invece, anche morfologicamente, dal Coda di Volpe al quale è stata accostata) ma a differenza di questa è neutra e non ha, proprio per via della buccia sottile (lì si concentrano i precursori aromatici) una grande spinta varietale. Per questa ragione occorre gestire con attenzione l’epoca di raccolta (l’aumento del PH degrada più rapidamente le molecole odorose) e condurre in maniera rigorosa e pulita la sua vinificazione.
Le Serole:
2009 @@@@ +
Paglierino scarico. Un primo naso di mela banana e foglia di menta che poi apre pian piano alla frutta a polpa gialla appena matura e a qualche lievissima nota tropicale. In bocca è secco e perfettamente equilibrato. Un bicchiere facile, che ha tutta la gradevolezza di un pallagrello giovane giovane che nel retrolfatto regala qualche ritorno di frutta gialla (percoca) e che sembra promettere molto per il futuro.
2008 @@
Paglierino carico, quasi dorato. Solo un anno in più, ma notevoli differenze, rispetto al precedente. A riprova che il Pallagrello può avere una evoluzione anche rapida. Al naso si apre e si chiude di continuo. Quando parla, evidenzia un mix originale di note muschiate, di finocchio selvatico e frutta secca. In bocca ha un attacco morbido, anche se è poi una certa sapidità il ricordo che lascia.
2007 @@
Paglierino carico. Al naso è sintonizzato su una nota vanigliata piuttosto marcata. A tratti esce fuori quasi una nota di burro di cacao. In bocca, è un po’ una sorpresa: con una acidità non del tutto risolta che il professore Moio spiega come una concentrazione dovuta alla annata siccitosa. Si può aspettarlo per vedere come evolve.
2006 @@@
Paglierino carico, con riflessi dorati. Al naso ha una bella complessità: un fondo note mielose con delle uscite speziate (pepe bianco), di erbe officinali e foglie secche. In bocca la struttura tiene, ma manca un filo di acidità e lunghezza. Un vino sontuoso da bere ora.
La verticale del Casavecchia Centomoggia
Il Casavecchia
No, non è il pinot nero o l’aglianico, ma il Casavecchia ha delle cose da dire se lo si sa prendere per il verso giusto. Morfologicamente ha un grappolo di media grandezza e piuttosto spargolo, con il rachide non rigido. I chicchi sono piccoli e con la buccia molto ricca in antociani. Tanto colore, tanti tannini e antiossidanti. Le prime vinificazioni, con l’emergere di sentori animali anche marcati e spiacevoli, racconta il professore, hanno suggerito, innanzitutto, di bisogna imparare a gestire la sua tendenza a divorare l’ossigeno, a cedere tannini e a chiudersi.
Centomoggia:
2008 @@@++
Convince questa anteprima, specie se guardata in prospettiva. Il vino è rubino violaceo e impenetrabile (lo sono tutti i campioni). Davvero non si può dire che il Casavecchia, annusando i sei bicchieri, sia un esuberante, ma è certamente riconoscibile. Questo millesimo si sintonizza su note di piccoli frutti neri, more soprattutto. Impegna la bocca, poi, in maniera distesa lasciando una piacevole sensazione di aver trovato un semplice ed efficace equilibrio che gli dà piacevolezza. Un vino godibile.
Nessun segno (in nessuno dei campioni) del passaggio in legno per 12-18 mesi del 60-70% della massa, né in bocca né al naso, cosa che fa pensare a un succo che ne ha di energia da domare e che non ne esce fiaccato.
2007 @@@
Alla vista non è dissimile dal precedente. Ma al naso, alla frutta nera, assomma una nota di sottobosco. In bocca mostra ancora qualche aspetto ruvido. L’annata siccitosa, spiega Moio, in ciò trovando conferma anche nella acidità di Le Serole 2007, concentra tutto, non solo gli zuccheri. E i tannini del Casavecchia ancora non sono stati addomesticati. Non manca il carattere a questo bicchiere da riprovare.
2006 @@
Lentamente il vino vira verso il granato. Qui alcuni riflessi. Il bicchiere ha una maggiore apertura al naso, con una nota frutta matura, di prugna, in evidenza che gioca con una muschiata. C’è maggiore evoluzione, con qualche accenno di cuoio, in questo bicchiere che rappresenta l’annata piovosa, e con rese sensibilmente maggiori, con un vino un po’ scisso tra naso e bocca.
2005 @@+
Davvero sembra che più trascorrano gli anni, più il Casavecchia si apra. Qui i frutti rossi, hanno il profumo della marasca, e forma di composta. Una nota matura ricorda il tabacco fermentato. In questo millesimo, data la pioggia, racconta Moio, a un certo punto si è fortemente defogliato per far asciugare i grappoli. Il prezzo pagato è stato un’inaspettata “scottatura” dell’uva che ha tolto complessità. Nell’insieme il bicchiere è piacevole.
2004 @@@@+
“Non si può vinificare senza avere in mente il vino che si vuole realizzare” dice Moio. Questo millesimo nel quale il granato, alla vista, ormai si quasi definitivamente imposto, può essere a buon titolo un’annata di riferimento. Ecco il Casavecchia come può essere. Un campione elegante e ricco che propone note iodate, di pelle e rabarbaro. In bocca – aspetto che gli dà modernità – è meno prorompente di quel che ci si aspetta proponendo una beva semplice e poco impegnativa. In bocca è pieno con qualche ritorno speziato, sottile, e una piacevole scia sapida.
2003 @
Decisamente granato, con quei sentori iodati del campione precedente che si fanno prepotenti. La prima annata di Centomoggia è in affanno, molto evoluta, complice un’annata che ha messo in crisi molti e che per l’azienda è stata la prima. La si ama per questo: ricorda da dove si è partiti e dove si è arrivati.
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