È una delle cantine più spettacolari in Campania: si passeggia stupiti tra decine di migliaia di bottiglie a riposo in nicchie ricavate tra le pareti di pietra di tufo. E poi, ovunque, barriques con il Taurasi Macchia dei Goti, il Taurì e il Salae Domini messi a riposare. Musica soffusa, foto e vecchi attrezzi contadini, un ruscello artificiale, la mostra presepiale e i doni degli artisti. Infine le vasche d’acciaio per il Fiano e Greco di Tufo sposati nel Fiagre. Sopra il punto vendita, la foto-ricordo della visita di Gino Veronelli e un accogliente sala di degustazione. Poche realtà regionali sono state costruite pensando anche al visitatore. Quando si parla di rinascita del vino campano: qui a Taurasi, appena dieci anni fa, non c’era assolutamente nulla. Al posto della cantina solo terreno.
Il fondatore, Antonio Caggiano, oggi affiancato dal figlio Giuseppe, è stato per anni un fotografo giramondo, dal freddo dell’Artide al deserto africano, dagli Stati Uniti al Sud America. Professione, geometra. Una vecchia vigna di famiglia (Salae Domini) e il tentativo fallito di trovare una intesa negli anni Ottanta con gli altri piccoli produttori: «Pensavano solo alla quantità, non riuscivano a capire quanto fosse importante abbassare la resa per ettaro per migliorare il frutto – dice Caggiano – poi la decisione di fare le cose a modo mio. Quando si arriva ad una certa età non c’è più molto tempo per aspettare che gli altri capiscano quello che a te è chiaro subito».
L’azienda nasce ufficialmente dieci anni fa. Il progetto di costruzione della cantina diventa, anno dopo anno, lentamente realtà. Ecco come: «Il danno più grave del terremoto del 1980 è stata la perdita di identità. La gente – racconta Antonio Caggiano – si liberava con gioia di vecchi portali, finiva di abbattere le vecchie case in pietra di tufo per costruirne nuove in mattoni e cemento armato. Tutto questo materiale di scarto finiva nelle discariche. Io ho semplicemente raccolto quello che gli altri avevano buttato».
La caratteristica produttiva di Caggiano, seguito in cantina dal professore dell’Università di Portici Luigi Moio e dal suo giovane allievo Angelo Valentino, è l’Aglianico. «Stiamo studiando – aggiunge Caggiano – perché è un vigneto incredibile. Quest’anno abbiamo fatto quattro vinificazioni diverse». Variazioni sul tema: nel Taurì è con il Piedirosso, secondo un accoppiamento classico in Campania (Gragnano, Lettere, e tra i nuovi, Serpico dei Feudi e Terra di Lavoro di Fontana Galardi) e una aggiunta (appena il 5 per cento) di Fiano. Il Salae Domini è un cru di Aglianico in purezza, con invecchiamento di 12-18 mesi. Infine il Macchia dei Goti, anche questo Aglianico al cento per cento, un Taurasi che ha immediatamente raccolto i due bicchieri sulla guida dell’Arcigola-Gambero Rosso sin dalla sua prima uscita, nel 1994.
«L’Aglianico è il più importante vitigno della Campania e della Basilicata – spiega Caggiano – ma è stato poco sperimentato. Certamente, rispetto a tanti altri vitigni, ha una grande longevità. Una bottiglia di Taurasi può essere conservata tranquillamente venti, trent’anni, senza problemi». Ed è proprio sul Taurasi, qui interpretato in maniera assolutamente singolare, che l’azienda irpina vuole giocare la partita decisiva. Si tratta dell’unica Docg del Mezzogiorno e la domanda ormai supera di gran lunga l’offerta. Per questo motivo gran parte dei 20 ettari di vigneto è occupato dall’Aglianico che diventa Taurasi solo dopo tre anni di invecchiamento in legno e affinamento in bottiglia. Oggi Caggiano etichetta circa 120.000 bottiglie: da microrealtà amatoriale è diventata un’azienda medio-piccola. «Ma siamo appena all’inizio», conclude Caggiano.
Il Mattino, gennaio 2000
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