Tra una cosa e l’altra, visito oltre 200 tavole pubbliche all’anno ed è stato dunque facile rendersi conto ultimamente di come uno degli aspetti della crisi del vino ha origine proprio qui dove invece ci si aspetterebbe il rilancio.
Mi è apparso molto chiaro visionando le carte dei vini della maggioranza dei locali al top, di quelli insomma, che dovrebbero fare tendenza. Ebbene, cosa è successo? Molto semplice, al netto di alcune eccezioni minoritarie, gli acquisti si sono fermati e molti vini alla page degli anni ’90 sono paralizzati come mosche nelle ragnatele, fermi come carri armati colpiti nel deserto.
Leggendo queste carte mi sono accorto di vedere nero su bianco l’origine delle attuali difficoltà. Anche alcuni stellati e bistellati tengono carte che nemmeno un’osteria di periferia potrebbe esibire.
Si tolgono cipolle e si pianta sangiovese per Brunello a Valle? La produzione dell’Amarone aumenta di un terzo? Famosi bianchisti campani si mettono a produrre rossi senza neanche avere vigne e magari neanche dalla stessa vigna ogni anno? Piccole aziende hanno più etichette di una cantina sociale pubblica?
La risposta a queste domande che in un paese enologicamente maturo sarebbe impensabile immaginare è nella sostanziale incoltura alla base delle scelte di acquisto.
Sappiamo come è andata, si è pagato cento euro bottiglie dal costo commerciale di tre euro e adesso nessuno è più disposto a ricomprarle per berle: meglio un Lambrusco da tre euro che un Supertuscan che vale tre euro è il ragionamento dei clienti.
Sembra incredibile, ma la crescita dell’importanza del vino nei ristoranti è stata così vorticosa da non creare la possibilità di formare gli acquirenti. E allora è successo o che si sono scartabellate le guide specializzate o che ci si è affidati ai rappresentanti.
Adesso i ragionieri hanno chiuso i cordoni degli acquisti e c’è paura di investire.
Essendosi bloccato il ciclo degli acquisti per la crisi economica il risultato, molto triste, è di vedere carte assolutamente imbarazzanti e ferme ad una filosofia assolutamente opposta alla tendenza di mercato e di gusto che privilegia, per dare un titolo giornalistico, il silenzio efficace della cerbottana al rumore a casaccio del bazooka.
Ma in realtà, come dovrebbe essere costruita la carta del vino in un locale pubblico?
La risposta è semplice e difficile.
Un oste, ristoratore stellato, destrutturato, molecolare, pasta e fagioli, insomma chiunque fa da mangiare dovrebbe anzittuto comprare i vini che ben si accompagnano al proprio stile di cucina.
Ma questa evidenza semplice ha la difficoltà di doversi aggiornare perché poche categorie sono ignoranti di vino come gli osti e gli chef, anche se questo atteggiamento può essere nobilitato da un Marchesi che dice si debba bere solo acqua per capire il piatto.
Come dire, Marchesi è come Virna Lisi del dentrificio, con quella bocca può dire ciò che vuole e noi lo ammiriamo, ma in linea di massima non è mai saggio rispondere con estremismo a un estremismo.
Questa antinomia tra gli chef e il mondo del vino è esemplificativa di quel che è successo in Italia, dove mentre la cucina si alleggeriva sempre di più e si mangiava sempre di meno si sono prodotti vini più alcolici, più strutturati, più concentrati.
Una regione come la Campania che non ha problemi di vendita con i bianchi continua, parliamo del 2008, a piantare più uve rosse che bianche. Poi magari si lamenta se l’uva aglianico sta a 15 centesimi mentre la falanghina a 45.
Perché? Molto semplice, la seconda ha mercato, il primo no.
Il secondo criterio per formare una carta è lo stesso di quello del mercato delle azioni: vendere quando tutti acquistano e comprare quando gli altri vendono. In realtà adesso è il momento di comprare in Italia, fare affari dalla Val d’Aosta alla Sicilia è molto facile, a sapere qualcosa di vino.
Dove si pensa di andare se la bussola è completamente persa, se anche nel vino si riflette il solito pressapochismo italiano, l’incapacità di guardare sui tempi lunghi e soprattutto di tenere la barra dritta?
Ecco dunque che la crisi di questi anni ha evidenziato bene tutte le contraddizioni e i temi che quasi nessuno ha preferito ascoltare: in fondo un incidente stradale non ci interessa finché non siamo coinvolti personalmente.
Voglio però chiudere con una nota di ottimismo. Proprio perché l’Italia non è un paese vitivinicolo maturo, è possibile bere bene, benissimo, riuscendo a spendere cifre più che abbordabili.
Bere alla grande non è questione di tasca, ma soprattutto di cultura, aggiornamento e passione.
Diffidate dunque di quelle tavole dove ci si affida solo ai rappresentanti per costruire le carte: se la pensano così sul vino, perché nel mangiare dovrebbero essere seri e bravi?
Ossia, può essere una persona arronzona sul 50 per cento del conto e pignola sull’altro 50?
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