Uno dei bianchi campani più famosi è in estinzione: l’Asprinio d’Aversa. Strano destino mentre impera la moda del crudo di pesce in stile nippo-vesuviano dove l’abbinamento d’obbligo sarebbe proprio questo bianco di cui Soldati e Veronelli cantarono il colore verdolino, l’agrumato, la grandissima freschezza e la capacità di spumantizzarlo. Per non parlare poi della mozzarella di bufala, suo alter ego naturale. Attualmente della doc Aversa sono in circolazione poco più di 300.000 bottiglie, una goccia di fronte ai dieci milioni della Falanghina, ai due milioni di Fiano, ai tre di Greco. «La soluzione – propone Raffaele Magliulo, 25mila bottiglie tra doc, igt e brut a Frignano – è forse nel legare l’immagine commerciale dell’Asprinio ad un abbinamento. Comunque per venderlo, a differenza di Aglianico e Falanghina, ha bisogno di essere spinto con decisione». È vero, il Casertano è la provincia dei piccoli numeri, ma le difficoltà dell’Asprinio sono cominciate proprio con il boom del vino campano, quando cioé nella fascia bassa ha perso la partita con la Falanghina e in quella alta con il Greco di Tufo e il Fiano di Avellino. «Non è un prodotto facile – dice Giuseppe Cicala, 55.000 bottiglie a Teverola – va legato commercialmente al territorio con più forza insistendo sulla qualità complessiva dei vini della nostra provincia». Eppure il prodotto è fantastico, onirico: questo clone di greco è da sempre il vino dell’Aversano, conservato e spumantizzato nelle grotte di tufo scavate per procurarsi il materiale da costruzione della propria abitazione. La tradizione delle vigne ad alberata è poi unica: si vendemmia sui pioppi a 20 metri di altezza su scale costruite ad hoc da manovrare con una tecnica di spostamento tutta particolare. E poi le leggende sulle sue origini e la qualità raggiunta dai cinque produttori: insomma, la sostanza c’è. «Abbiamo avuto difficoltà – dice Nicola Caputo, poco più di centomila bottiglie di Asprinio – e allora abbiamo eliminato il prodotto base e ci siamo concentrati sulla qualità. Il nostro Fescine, dal nome delle ceste usate per raccogliere l’uva sui pioppi, non ha problemi anche perché il prezzo è contenuto sui 5 euro, mentre per il brut metodo classico abbiamo deciso di creare una cantina ad hoc nella nostra proprietà al centro di Teverola». C’è un’azienda che ha puntato tutto su questo vino, I Borboni dei due cugini Numeroso (poco meno di 80.000 bottiglie a Lusciano), l’unica ad avere un passito di Asprinio oltre che un brut e due versioni, Vite Maritata e Santa Patena (con passaggio in legno). «L’acidicità elevata – conferma Carlo – ha creato dei problemi sul mercato dove oggi prevale la morbidezza, ma la difesa della tipicità e la storia se coniugate con la qualità alla fine trovano soddisfazione sul mercato degli intenditori». «Purtroppo i consumatori campani non sono ancora convinti dela qualità dello spumante Asprinio – sostiene Elena Martusciello di Grotta del Sole a Quarto, 60.000 bottiglie – come avveniva una decina di anni fa per i rossi e i bianchi della nostra regione. Si ancora consumano Prosecco, Pinot e altri vini come aperitivo. In questo segmento di mercato sembra proprio di stare ancora negli anni ’80». La soluzione? La solita: mettersi in un Consorzio per fare marketing, risparmiare sui costi e promuovere il prodotto. Ma è più facile che un cammmello passi attraverso la cruna dell’ago che cinque aziende campane si mettano insieme. L’Asprinio soffre e noi con lui.
Il Mattino, novembre 2003
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