Luciano Pignataro
L’aglianico nasce dalla povera viticoltura di autoconsumo dell’Appennino Meridionale, la dorsale che inizia a Roccamonfina, il vulcano spento al confine tra Campania e Lazio ricco di acqua minerale, e termina in un altro vulcano spento, il Vulture lucano, anch’esso ampolla di acque.
Questa sua funzione sociale lo ha tenuto piuttosto in disparte dopo la stagione d’oro della fillossera. Già, perché la malattia della vite attecchi in ritardo su questi suoli e tra gli anni Venti e Trenta gran parte dell’Italia fu dissetata dai vagoni di legno pieni di vino o di mosto in partenza da Barile e da Taurasi.
Poi la malattia e la guerra. Sicché la sua sopravvivenza fu affidata ad alcune aziende radicate nei tre areali tradizionali in cui ancora oggi possiamo individuarlo: Mastroberardino e Struzziero in Irpinia; Paternoster, D’Angelo e Napolitano nel Vulture, la Cantina del Taburno nel Sannio.
Il risveglio della viticoltura italiana dopo la crisi del metanolo ha trovato l’aglianico sostanzialmente succube di altri vitigni italiani e internazionali e per farsi conoscere è ricorso spesso, tra la fine degli anni ’80 e soprattutto l’inizio degli anni ’90, a matrimoni con il sangiovese, il montepulciano, il cabernet sauvignon e il merlot. Un po’ come è accaduto per il gaglioppo, il nero d’ Avola e il negroamaro.
Non a caso il disciplinare docg del Taurasi, approvato nel 1993, è molto più prudente di quello del Brunello perché consente l’aggiunta di un 15% di altri vitigni a bacca rossa autorizzati nella provincia di Avellino. In ogni caso le aziende storiche non hanno mai deragliato dalla promozione del vitigno in quanto tale e questo è stato sicuramente uno dei fattori di successo, soprattutto quando l’appeal dei blend misti autoctono/internazionale è definitivamente tramontato sul piano commerciale.
Un altro elemento che ha aiutato l’aglianico negli anni ’90 è stata l’introduzione della barrrique ad opera di Luigi Moio che, nel 1994, appena rientrato da un lungo soggiorno di studio a Bordeaux, la consigliò alla nascente cantina di Antonio Caggiano.
Iniziano così a piovere premi e riconoscimenti dalle guide specializzate italiane e straniere mentre nascono numerose aziende medio-piccole che con il loro lavoro di buona fattura artigianale riescono a creare la massa critica necessaria per attirare l’attenzione. Un segnale di questo successo è il cammino del vitigno, sceso dalle montagne dell’interno per dirigersi verso il Cilento, il Molise e la Puglia dove i vigneti guardano l’Adriatico, persino nella Calabria jonica. Attualmento lo lavorano circa trecento aziende.
Ha molto aiutato l’affermazione del vitigno, infine, il costo medio contenuto delle bottiglie in commercio sicché, soprattutto dopo il 2003 quando si è maturata la consapevolezza della crisi, l’appassionato poteva trovare un rosso assolutamente tipico, importante, a prezzo accettabile.
Mossi i primi passi, ora molti si interrogano in quale direzione muoversi, soprattutto di fronte alla difffusa reazione contro i vini concentrati e marmellatosi.
Se non è possibile parlare di identità dell’Aglianico, nel senso che sono ancora poche le vendemmie commercialmente rilevanti di cui si può discutere (pensiamo che prima del 1990 in Irpinia c’erano solo dieci aziende a fronte delle attuali 140), possiamo però indicare cosa non deve essere.
Il colore non è mai eccessivamente concentrato, il bicchiere rubino deve essere tendenzialmente penetrabile e decifrabile. In caso contrario significa la presenza di salasso o altri vitigni.
Il naso non può manifestare note esuberanti, magari persistenti ma non intense perché in caso contrario vuol dire che si è abusato con il legno (grande o piccolo importa relativamente).
Il palato deve essere strutturato, il tannino presente anche se ovviamente né verde e né ruvido, la freschezza la caratteristica dominante capace di dettare i tempi della beva.
Dire Aglianico Giovane significa usare un’ossimoro. Per essere bevuto senza forzature e goderne in pieno è necessario sempre aspettare almeno quattro, cinque anni.
L’Aglianico quando è vigoroso è sicuramente un vino da abbinamento, un grande rosso territoriale che non ama cucina fusion o internazionale, ma i solidi piatti robusti della fame contadina. Quando supera i dieci anni diventa fine e delicato: solo allora si potrà conquistare la sua anima, capirlo e goderne.
Civiltà del Bere, febbraio 2009
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