di Luciano Pignataro
L’Aglianico del Taburno è uno degli assi della manica che la viticoltura campana sta per scoprire sul mercato della critica specializzata e dei consumatori: rosso di grande tradizione, deve aspettare almeno due anni (tre per la riserva) prima di poter essere venduto, nasce nel cuore del Sannio, un territorio ancora fuori dai circuiti del turismo di massa e proprio per questo ricco di scoperte paesaggistiche, monumentali e soprattutto caratterizzato da una incredibile biodiversità agroalimentare.
Anche per questo motivo conserva ancora un buon rapporto tra qualità e prezzo offrendo la possibilità di fare affari come ormai in poche altre zone italiane. Proprio qui, tra queste dolci colline sorvegliate dall’arcigno Taburno, dove i Romani subirono l’onta delle Forche Caudine, c’è una delle due zone autenticamente “rossiste” della Campania, dove cioé la coltivazione dell’aglianico ha preceduto, anziché seguire, gli orientamenti del mercato nazionale e internazionale degli ultimi anni. Sì, perché il territorio vocato all’aglianico è sostanzialmente diviso, come la Gallia di Cesare, in partes tres: Vulture in Lucania, Taurasi in Irpinia e Taburno nel Sannio. E il Taburno è a soli 30 chilometri da Taurasi, una distanza difficile da concettualizzare a chi non conosce il territorio e le sue sfumature. Trenta chilometri con due colture in comune: l’aglianico in crescita e la coltivazione del tabacco in declino. Stretta da questa dialettica, l’agricoltura sannita scommette sul suo futuro.
Siamo alle porte di Benevento, la città ricostruita e colonizzata dopo la definitiva distruzione di Caudium e la disfatta sannita celebrata dai vincitori con lo spettacolare Arco di Traiano eretto nel cuore del centro abitato. Capitale del grande ducato longobardo del Sud che si spingeva sino alle porte di Napoli e di cui restano ovunque le tracce. Questa è la provincia campana che più di ogni altra è tutelata dalla doc, anzi, dalle cinque doc che coprono tutto il suo territorio. Non è poi così difficile capire il motivo di questo primato: basta percorrere in lungo e in largo la Valle Telesina, girare per il Taburno, visitare Guardia Sanframondi e Sant’Agata dei Goti, per rendersi subito conto dell’importanza assoluta e decisiva della viticoltura nell’economia agricola di questa zona. Filari di viti a destra e a sinistra per chilometri e chilometri assediano le strade, una sorta di barriera corallina che ha impedito alla Campania di essere inondata dal vino pugliese. Una tradizione antica e radicata visto che oltre all’Ager Falernum era proprio questa la zona prediletta dai Romani quando desideravano commerciare vino: la via Latina che collegava Benevento alla Capitale era un via vai continuo di carri usati per il trasporto di anfore.
Ma tutto questo può al massimo interessare gli storici perché l’attuale situazione è il frutto di scelte maturate molto più recentemente, dopo la Seconda guerra mondiale per la precisione. In particolare, la nascita delle cantine sociali o delle grandi aziende specializzate esclusivamente nella vinificazione costituisce la reazione dei contadini e dei piccoli proprietari letteralmente vessati dai grossisti d’uva napoletani che facevano il prezzo. La tattica funziona in parte ancora oggi: si aspetta sino all’ultimo momento prima di comprare per abbassare le pretese dei produttori assaliti dal panico di restare con l’invenduto in pianta. Il prodotto ovviamente lasciava decisamente a desiderare, troppa quantità, poca qualità: il mondo del vino ha avuto anche questi aspetti negativi che ne hanno condizionato lo sviluppo sino a una quindicina di anni fa. Ma la funzione delle cantine sociali è stata anche quella di difendere e garantire comunque intere comunità aggrappate alla vigna come principale, a volte unica, fonte di reddito per andare avanti e se la viticoltura ha resistito fino ad oggi è proprio grazie alla loro azione costante, anche di pressione politica sugli amministratori locali e i parlamentari. Con i suoi 80.000 ettolitri Benevento costituisce da sola circa il 40 per cento del totale della produzione regionale certificata, ed è perciò qui che si gioca la partita sul futuro della viticoltura campana. Il riconoscimento di ben cinque doc nel Sannio, un record di concentrazione nel Mezzogiorno, ne è una chiara conferma. Di queste, l’unica monovitigna sullo stile appunto di quelle di Taurasi e del Vulture è l’Aglianico del Taburno di cui si producono 7000 ettolitri. Non esistono in Campania e nel Sud, è bene sottolinearlo, altre doc o docg fondate esclusivamente su una sola uva a bacca rossa.
Abbiamo due porte per entrare nel mondo dell’Aglianico del Taburno, il gigantismo della Cantina del Taburno di Foglianise e l’azienda di Domenico Ocone a Ponte. Due facce della stessa medaglia, due approcci distinti che comunque portano alla fine allo stesso risultato: qualità e successi commerciali.
L’aglianico infatti è da sempre l’anima della Cantina del Taburno fondata negli anni ’70. La grande capacità produttiva, le bottiglie accattivanti, la politica di prezzi contenuti che alla fine non incideva significativamente sul conto, così agli inizi degli anni ’90, giorno dopo giorno sono stati spazzati via dagli scaffali dei ristoranti campani i pinot, gli chardonnay e i cabernet piovuti dal Nord per essere sostituiti da Aglianico, Falanghina, Greco, Coda di Volpe. In poche parole, la Cantina del Taburno è stata in prima fila nella rivoluzione del mondo vitivinicolo regionale sino al grande boom attuale dove la domanda continua a superare l’offerta. Dopo la crisi dei Consorzi Agrari, da cui dipendeva, la Cantina del Taburno sembrava avviata ad un declino irreversibile. Poi, nel 2000, la svolta improvvisa e benefica con l’inizio della collaborazione con il professore Luigi Moio e con i suoi allievi dell’Università di Portici. Il lavoro di valorizzazione sui prodotti è stato anche facilitato da investimenti costanti fatti vendemmia dopo vendemmia: basta una visita aziendale per rendersi conto che siamo di fronte ad una delle realtà più importanti della Campania. La cantina è attrezzata, spaziosa, funzionale, dotata di un grande punto vendita, e poi ancora gli uffici e la sala riunioni e, alle spalle, la bomboniera: una sala degustazione che ricorda le vecchie taverne e una delle più strepitose bottaie del Mezzogiorno, il tutto sotto una collina coperta da prato e alberi. Ma dobbiamo sottolineare anche la scelta coraggiosa fatta con l’arrivo di Moio, inizialmente di non facile comprensione: l’eliminazione totale dello sfuso, dei boccioni da cinque litri e delle bottiglie da due litri. Una scelta drastica ma vincente che alla fine ha prodotto reddito e convinto tutti. Insomma, la Cantina del Taburno è stata la prima struttura pubblica a seguire l’esempio di analoghe aziende del Nord. Un management attivo e pronto a cogliere le novità, una scuola di pensiero enologica molto determinata, scelte commerciali decisamente orientate esclusivamente ai vitigni autoctoni.
L’altra porta che abbiamo per possedere l’anima dell’Aglianico del Taburno è Ocone a Ponte. L’azienda è stata fondata nel 1910 dal nonno di Domenico, Giuseppe Ocone, e per lungo tempo è stata l’unica espressione qualitativa interessante di questa parte della provincia di Benevento. Dopo aver lavorato sino agli anni ‘50 sulla quantità e sul vino da esportazione al Nord, si è cominciato ad imbottigliare e, a partire dagli anni Ottanta, a puntare sulla valorizzazione dei vitigni autoctoni seguendo l’esempio di Antonio Mastroberardino in Irpinia e di Mario D’Ambra a Ischia. È stata proprio l’assidua frequentazione con quest’ultimo che ha convinto Domenico della necessità di operare questa scelta commerciale. Nel panorama regionale Ocone ha comunque la sua importanza anche per la valorizzazione della coda di volpe, essendo stata tra le prime cantine ad imbottigliarla in purezza. L’azienda, certificata biologica come molte altre nel Sannio, è circondata da una antica vigna di aglianico da cui si ricava il cru Vigna Pezza La Corte secondo uno stile tradizionalista che privilegia l’eleganza alla concentrazione.
Sempre a Ponte, vecchio borgo longobardo a 12 chilometri da Benevento in direzione di Telese, è al lavoro uno dei giovani leoni sanniti che stanno cambiando il volto del mondo vitivinicolo provinciale. Lorenzo Nifo Sarrapocchiello, dopo essere stato a bottega da Luigi Moio alla Cantina del Taburno, ha impresso la svolta all’azienda di famiglia, un vecchio casale del ‘700 circondato da dodici ettari di oliveti e vigneti coltivati e certificati biologici (Bioagricooop). Vini nuovi dunque, ben piantati nella tradizione ma attenti a quanto si sta muovendo nella viticoltura italiana internazionale. Per questo nel panorama regionale l’esperimento in corso, come altri in cui i protagonisti sono giovani appassionati e desiderosi di valorizzare le proprie aziende, appare molto interessante e denso di risultati futuri.
I giovani, appunto, sono la grande novità di quest’ultimo periodo dopo che per decenni la dialettica vitivinicola sannita si è giocata tra le grandi Cantine Sociali, gli imbottigliatori e un ristretto gruppo di viticoltori (Ocone, Venditti, Ciabrelli, Mustilli). La scena è già di fatto occupata da una pattuglia di trentenni ben consapevoli del nuovo ruolo che devono recitare nelle aziende di famiglia: giovani che tornano nei campi anziché cercare rifugio in città. Il loro leader è sicuramente Libero Rillo, titolare dell’azienda Fontanavecchia a Torrecuso. Era il 1980 quando il padre Orazio cominciò ad imbottigliare ed etichettare il suo vino. In una zona vocata al rosso, l’aglianico di Rillo ha sempre avuto una sua spiccata personalità, ammorbidita dall’arrivo dell’enologo Angelo Pizzi, il papà della doc, e dal passaggio di testimone generazionale. Libero cura il vigneto con ossessione e pignoleria tipica della gente di campagna che sa di non poter sbagliare, Angelo gioca con il legno in maniera non aggressiva. Una espressione compiuta e tipica del territorio firmata da un vignaiolo autentico che ha appena finito di ampliare la cantina.
L’azienda di Rillo è a Torrecuso, il comune più importante della doc: il borgo di fronte a Ponte domina le colline argillose, un saliscendi spettacolare che ricorda per certi versi le Langhe: i vigneti di aglianico sono la caratteristica del paesaggio rurale, con la spalliera che progressivamente e inesorabilmente sostituisce il vecchio tendone che regalava anche 200 quintali per ettaro di terra. Altri tempi: allora il consumo pro capite da queste parti arrivava anche a tre, quattro litri al giorno e il vino era l’alimento principale. Vita dura, durissima alle falde del massiccio dei monti Taburno-Camposauro, oggi area naturalistica istituita per proteggere i secolari boschi di castagni, abeti bianchi portati dai Borbone nel 1846 , lecci e soprattutto faggi giganteschi: una sorta di torre di avvistamento da cui si dominano le province di Caserta, Benevento e Avellino. Curiosa coincidenza: nel 1993 viene riconosciuta la doc, l’anno successivo viene ufficialmente istituito il Parco Regionale in cui sono compresi 13 comuni, meno di 30.000 abitanti per 12.370 ettari tutelati.
Torrecuso, dopo Castelvenere costruita dall’altro lato della Valle Telesina, è il comune più vitato della Campania e con la maggiore concentrazione di aziende. Oltre a Libero Rillo ci sono infatti Torre dei Chiusi, ex azienda agricola Domenico Pulcino, il Poggio di Carmine Fusco, la nuovissima Torre Varano, Falluto e Libero Fusco. Tutte di solide radici contadine. Una storia diversa, invece, è il ritorno alla terra di Paolo Cotroneo con la sua azienda Fattoria La Rivolta e i cui terreni sono proprio a fianco a quelli di Rillo. La Rivolta è quella dei contadini contro un feudatario longobardo che aveva tirato troppo la corda. Da questa contrada il nonno di Paolo, affermato farmacista a Fuorigrotta, partì per Napoli dove gestì a Bagnoli le omonime terme Cotroneo conosciute in tutta la città. Ma l’azienda di famiglia non è mai stata dimenticata dal nipote che ha recuperato e ristrutturato la masseria seguendo criteri filologici e filosofici: l’antica cantina completamente ripresa e barricata, un delizioso punto vendita come difficilmente si trovano al Sud, poi naturalmente la parte moderna con l’acciaio e la linea di imbottigliamento, un giardino in stile arabo invece fa da scorta alla sala degustazione. I vini dell’azienda, curati da Angelo Pizzi, hanno tutti un segno dolce, femminile, l’uso delle barrique non copre la tipicità.
Vicino Torrecuso, pochi chilometri, e siamo a Paupisi dove troviamo ancora un giovane protagonista: Luigi Rapuano, enotecnico, che ha ripreso la tradizione secolare della famiglia traducendola in bottiglie etichettate. Dopo alcune vendemmie di prova è uscito allo scoperto con l’annata 2001 colpendo tutti favorevolmente. Prima di tornare a Benevento facciamo un salto a Montesarchio, dall’altro lato del Taburno, quello meridionale che si affaccia sulla Valle Caudina dove sorgeva Caudium, per raccontare della Masseria Frattasi, ultima nata nella zona doc. Il giornalista Pasquale Clemente, ideatore, fondatore e direttore di quotidiani, si è rimboccato le maniche nell’antica masseria di famiglia dove vivono i suoi genitori lavorando sodo nelle vigne a tendone alle quali si era già applicato suo nonno Antonio Cecere. Alle spalle della casa, circondata da vigneti, olivi, alberi di fico, essenze mediterranee, la cantina pensata per essere visitata. Due i valori aggiunti di questa produzione: il metodo biologico certificato, del resto molto comune a Benevento, e le viti a piedefranco, una rarità in Campania e ancora di più nel resto dell’Europa. Nell’azienda si coltiva solo falanghina, siamo sugli 80 quintali per ettaro, però l’aglianico viene acquistato da alcuni contadini con i quali la famiglia ha costruito un rapporto da molte generazioni. Al lavoro c’è l’enologo Maurizio Caffarelli.
A Benevento, il cui territorio comunale rientra in parte nella doc e dove il Gruppo Fratelli Muratori ha fondato Oppida Aminea per fare grandi bianchi alla francese, c’è l’ultima azienda impegnata con l’Aglianico del Taburno. Si tratta di Devi. Dal 1978 Vincenzo De Cicco ha iniziato a produrre vino con le sue uve e ad imbottigliarlo. Oggi gli sono affianco i due figli, l’uno ingegnere, l’altro avvocato e l’azienda cresce con gusto, passo dopo passo, senza fretta, come sempre accade quando alla viticoltura si accompagnano altri lavori gratificanti. La cantina è in fase di ristrutturazione, ma i prodotti ci sono: l’aglianico appena appena toccato dal legno delle botti e delle barrique. Il risultato è un prodotto dove il frutto resta l’attore principale e recita in modo elegante e composto.
Per dar conto di questa Campania sconosciuta dovremmo ancora parlare di borghi medioevali intatti, delle meraviglie architettoniche e monumentali di Benevento, dei formaggi e dell’olio dop, della natura incontaminata, della straordinaria sensazione di spazio regalata da una provincia poco abitata, dall’essere soprattutto altro dal resto del Regno delle Due Sicilie per aver fatto parte dello Stato della Chiesa, della rete delle aziende agrituristiche. Anche tutto questo c’è in un sorso di Aglianico del Taburno, un vino che ha studiato per diventare importante e famoso.
Da Cucina e Vini, dicembre 2004
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