di Lello Tornatore
L’Irpinia vitivinicola ha una storia relativamente giovane. Gli anni ’90 rappresentano lo spartiacque che divide una fase in cui erano affermate sul territorio solo quattro/cinque cantine, Mastroberardino in testa.
Il modello di cantina dell’epoca pre –sisma non riteneva prioritaria la produzione delle uve, ma l’affermazione del proprio brand attraverso protocolli di vinificazione che finalmente valorizzassero il carattere dei tre vitigni storici, fiano greco e aglianico.
Una per tutte, la grande intuizione di Antonio Mastroberardino di vinificare le uve di fiano e di greco a dosaggio zero o quasi, stravolgendo la storica tradizione di puntare a bianchi dolci. Da qui il grande successo dei bianchi irpini, che grazie alla grande richiesta del mercato, portò al raddoppio del prezzo delle uve.
Intanto i vigneti impiantati dalle grandi cantine, che nel frattempo avevano capito che quanto fosse importante disporre di uve proprie, incominciarono ad entrare in produzione, facendo così calare la richiesta di uve e quindi il loro prezzo si dimezzò. Tra la fine degli anni ’90 e gli inizi del nuovo millennio, a causa della bassa quotazione del prezzo delle uve, che ormai aveva raggiunto livelli tali da rendere passiva la coltivazione delle vigne, si è innescato un processo di trasformazione dei viticoltori in vitivinicoltori.
E quindi, Clelia Romano a Lapìo, Antonio Caggiano a Taurasi, Gabriella Ferrara a Tufo, Guido Marsella a Summonte, Antonio Troisi, Antoine Gaita e Sabino Loffredo a Montefredane, Michele Perillo a Castelfranci, molti di loro trovandosi persino uve opzionate ma non ritirate, iniziarono a vinificare ed imbottigliare i vini prodotti con le proprie uve, recuperando così il valore aggiunto della trasformazione dell’uva in vino.
Fu subito un successo per tutti, tanto da incoraggiare altri produttori a fare altrettanto, prendendo a modello la loro esperienza positiva. E allora nei primi anni duemila iniziano ad imbottigliare Luigi Tecce a Paternopoli , Gerardo Contrada a Candida, Ercole Zarrella a Lapìo, Luigi Moio a Mirabella, Ciro Picariello a Summonte, e così via fino ad arrivare alle attuali duecentocinquanta cantine circa, grazie anche, in alcuni casi, ai contributi statali.
E’ stato un bene o un male?Beh, la competizione è sempre stata un bene, soprattutto in termini di qualità. Le tantissime opportunità di lavoro hanno portato alcuni giovani enologi del posto ad una grande crescita professionale, che ha determinato, attraverso l’espressione dei diversi stili di vinificazione, la definitiva affermazione dei tre vitigni, ma anche del relativo terroir, a livello internazionale.
Ma la crescita maggiore è stata quella dei produttori, che essendo in competizione con grandi produttori, non hanno potuto fare altro che puntare alla qualità abbassando le rese per ettaro, investendo in tecnologia, spesso specializzandosi su un solo vitigno e puntando a nuovi mercati, soprattutto sull’estero. Le note dolenti vengono invece dalla capacità di incidere sui mercati che allo stato è quasi prossima allo zero, e qui ci sta alla grande una famosa massima contadina dell’Irpinia : “ doe nuci rint’ o’ sacco, nun fanno rimore” (due noci nel sacco non fanno rumore). Mi riferisco ovviamente alla scarsa propensione all’associativismo che caratterizza la cultura meridionale in generale, ma ancor di più quella contadina delle zone interne. Se poi a questo ci aggiungete che storicamente il popolo irpino è sempre stato fiero e bellicoso (in Irpinia si dice “appiccicatario”), il carico è servito!!!
Non voglio entrare in merito alla famigerata polemica del Consorzio di Tutela, ma a parziale discolpa della stragrande maggioranza dei vitivinicoltori devo anche registrare che certamente non si è fatto molto (usando un’eufemismo) per invogliarli ad abbandonare quell’atteggiamento storico-culturale di isolamento. A questo sicuramente c’è da aggiungere la latitanza delle istituzioni pubbliche, a tutti i livelli, che orami hanno definitivamente abdicato al ruolo di promozione del territorio che pure compete loro. In definitiva, credo il bilancio sia positivo, soprattutto in relazione ai pochi decenni di storia vitivinicola che possiamo vantare rispetto ad altre realtà, nazionali e internazionali, che sono partite molto prima di noi e che solo grazie a massicci interventi di marketing riescono a stare a galla.
L’auspicio è che si mettano da parte notorie volontà prevaricatrici, nella consapevolezza che la crescita di un territorio fa bene a tutti, grandi e piccoli, anzi, ai grandi fa bene proporzionalmente di più!!!
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