Okkei, l’Amarone non sarà il vino che più amo – e con ogni probabilità è anche perché nella mia moleskine non si registra(va)no assaggi di una certa età – ma io in Valpolicella ci torno sempre volentieri. E così, raccogliendo l’invito di AIS Verona e dell’amica, sommelier e brava blogger Maria Grazia Melegari (aka @soavemente), ho partecipato qualche sera fa alla verticale del Monte Sant’Urbano della famiglia Speri.
E dire che io, in azienda dagli Speri, c’ero già stato. Più o meno due anni fa – forse qualcuno in più, mi ricorda Giampaolo – in visita con la mia delegazione d’adozione, quella di Milano. Ciò nonostante, non potevo sprecare una simile opportunità: ripercorrere la storia dell’Amarone,
dagli anni ’70 ad oggi, attraverso le etichette di una delle famiglie storiche della Valpolicella, tra le poche a conservare ancora oggi vecchie, vecchissime annate.
Un vero e proprio background, con la degustazione di una singola annata per decennio. Gli anni ’70: la ricerca e la selezione clonale, gli studi sul sistema di allevamento. Gli anni ’80: le sperimentazioni sui legni e l’introduzione delle barrique nel periodo storico in cui con l’enologia si pensava di poter sopperire al deficit in vigna. Gli anni ’90: l’introduzione di un sistema controllato di appassimento delle uve.
Il Duemila: i giorni nostri e la crisi del comparto vitivinicolo prima ancora che dell’Amarone.
Fondamentali sono stati gli studi sul tradizionale sistema di allevamento della pergola veronese. Gli Speri lo hanno sempre ritenuto il più idoneo, ancor più dopo la comparazione di 4/5 sistemi diversi su circa un ettaro di vigneti. Certo, alcuni svantaggi: in primis, “la testa del coltivatore” – così la chiama Giampaolo – ovvero la necessità di domare il sistema, controllando numero e pesi dei grappoli e operando, quindi, un attento diradamento estivo; soprattutto, una vendemmia da condursi esclusivamente a mano (fino a 900 ore per ettaro di lavorazione). Svantaggi, sì. Ma anche molti vantaggi: fusto alto (lontananza dall’umidità del terreno), uva in pendenza, grappoli decisamente allungati e generalmente più spargoli, in particolare per la corvina (uva di terza epoca con buccia molto fine, soggetta – soprattutto nell’ultimo decennio – a forti esposizioni pomeridiane); insomma, maturazione più regolare grazie alla parete fogliare opportunamente diradata, con minore rischio di marciumi indesiderati.
E poi: più ceppi per ettaro e meno gemme per pianta, riscoperta della molinara e del suo importante ruolo di “regolatore di acidità”. Last but not least, la selezione del cru esposto a sud/sud-ovest a un’altitudine tra i 270 e i 350 metri, con terreno di origini vulcaniche, ricco di minerali e caratterizzato da un forte drenaggio idrico che induce le viti a spingersi fino in profondità, stimolando la competizione tra le piante. Controllo dell’appassimento per avere vini mai esagerati con un tenore alcolico massimo intorno ai 15 gradi, ricerca di equilibrio ed eleganza. In quest’ottica, il Monte Sant’Urbano va sullo scaffale dopo 5 anni dalla vendemmia, un anno in ritardo rispetto al disciplinare, con 4 anni di maturazione in legno – i primi 2 in botti da 50 hl come da tradizione e gli ultimi due in doppia barrique da 500 litri – e 6 mesi di affinamento in bottiglia.
Ecco le mie note di degustazione e un breve resoconto delle annate prese in considerazione predisposto da Giampaolo Speri e da Ais Verona.
2006
L’andamento stagionale è stato caratterizzato da piovosità nella norma. L’andamento particolarmente fresco e il cielo coperto con scarsa luminosità nella prima settimana di giugno hanno portato ad un allungamento del rachide, producendo in vendemmia grappoli più spargoli e adatti per l’appassimento. Un luglio particolarmente privo di precipitazioni ha messo fortemente in crisi vigneti giovani e su terreni poco profondi. La vendemmia è stata caratterizzata da un periodo di bel tempo, permettendo di vendemmiare le uve nel migliore momento della maturazione con un eccellente stato sanitario.
È l’ultima annata in commercio, imbottigliata ad agosto 2010. Il primo naso è assai intenso, l’eleganza è compressa dalla nota alcolica decisamente accesa; si affacciano timidamente il frutto, la marasca e l’amarena, l’alloro e le spezie dolci del legno; un che di liquirizia, in lontananza. Il colore – un rubino di affascinante luminosità – tradisce dai suoi riflessi un’innegabile gioventù. Giovinezza che è anche il tratto distintivo dell’assaggio, secco, molto caldo e tutto sommato coerente con le sensazioni olfattive. Tannino possente, sì; ma smorzato dalla freschezza, ancor più che dalla sapidità. Finale di cacao amaro, amarena sotto spirito e, soprattutto, geranio e mela cotogna; un po’ amarognolo, per la verità.
2001
L’annata è stata caratterizzata da un deficit idrico che ha segnato sia la primavera che tutta l’estate. I mesi asciutti di giugno e luglio hanno favorito una stato sanitario eccellente delle uve. Le forti piogge del primo periodo di settembre hanno riequilibrato lo stato vegetativo della vite, portando uno stato di maturazione anticipato. Tutto il periodo di raccolta è stato segnato da belle giornate e le condizioni invernali, dovute a un inverno molto rigido, hanno favorito un perfetto stato sanitario e un ideale appassimento.
Le tonalità cromatiche non sono certo quelle del rubino, ché anzi il colore è anche più opaco. Appannato sembra essere anche il frutto, quasi surmaturo, che diventa abbastanza velocemente confettura di more e di amarena, per poi lasciare spazio a una nota salmastra di olive in salamoia, di acciughe. La leggera stanchezza dei profumi è accentuata dalla pungenza eterea. In bocca è molto caldo e l’approccio è tutto sul cioccolato che riempie la bocca fino alla percezione di un tannino più ruvidino, probabilmente per la minore componente di acidità del sorso. Arrivano dopo i sentori di origano e una bella sensazione pepata, di canfora e poutpurri, di caramella balsamica alle erbe, tipo quelle svizzere che tanto piacciono a mia nonna (le ricola). Salinità sensibilmente più spiccata e una nota finale di umami.
1995
Dopo un inverno con temperature miti, è seguita una primavera con temperature elevate nella prima parte e piovosa e fredda nella seconda parte, un fattore che ha ridotto la fioritura della vite e ha portato ad avere sulla pianta una quantità minore di uva e con grappoli spargoli, condizione ideale per l’appassimento. A un luglio piovoso è seguito un agosto molto caldo che ha facilitato la maturazione e lo stato sanitario. Settembre con giornate soleggiate e ventilate ha facilitato la raccolta con uve mature e con gradazioni zuccherine sopra la norma.
Giampaolo Speri la ricorda come l’annata della svolta. Per la prima volta, gli Speri decidono di utilizzare la doppia barrique come contenitore per la maturazione del vino per gli ultimi due anni di permanenza in legno. La nota animale in apertura è stupenda e distoglie per un attimo l’attenzione da un colore altrettanto affascinante, sicuramente più vivo, finanche se paragonato al 2006. La sensazione di una bevuta più “giovane” di quanto potesse sembrare viene confermata al palato dove spiccano una freschezza sopra le righe e una salinità ancor più presente, all’apice di un crescendo dal primo campione. Dopo il sentore animale è la volta, anche qui, dell’alloro (che si trova anche all’esterno, su un lato del piazzale antistante la sala di degustazione); poi qualche accenno di terriccio, quasi di carne fresca tritata e il frutto, più vivo di quanto t’aspetteresti. Il risultato è un sorso di struttura ma mai nemmeno lontanamente pesante, che si concede con grandi bevibilità, freschezza e piacevolezza. In prospettiva da tenere d’occhio.
1983
Annata considerata eccezionale per la produzione dell’Amarone. Buona primavera ed abbondanti piogge durante la prima settimana di agosto, seguita da temperature elevate per tutto il mese di settembre hanno portato alla produzione di grappoli spargoli e con una maturità straordinaria. Ottimo il tenore zuccherino e media l’acidità.
E va bene che è il millesimo della mia nascita, quindi avrei potuto anche lasciarmi trasportare dal sentimento e nominarlo d’ufficio vino della serata. Invece, no. Tutt’altra roba rispetto al millesimo che lo precede ma anche a quello che lo segue. Ciò nonostante il primo naso è assai interessante: rabarbaro, tabacco, chinotto, buccia di arancia candita, odora quasi come il cassetto della nonna. Il colore granato, rapportato alla forma smagliante dell’Amarone 1973, è di quelli che annunciano un inesorabile declino; buona pulizia, tuttavia, nel calice. In bocca è anche più intenso e la pungenza dell’alcol si fa a tratti fastidiosa, non apparendo del tutto integrata rispetto al resto. Sorso molto caldo, dunque, che chiude sulle note di tamarindo e di liquirizia. Completamente assente la frutta, non fosse per quel ricordo di pera mastantuono che mi riporta con la mente dritto dritto alla Costiera.
1973
Annata caratterizzata da un buon equilibrio tra temperature e piovosità durante tutto il periodo vegetativo della vite. Grazie ad abbondanti piogge primaverili, che hanno spinto una rigogliosa vegetazione, l’annata si è presentata da subito piuttosto abbondante. La rigorosa selezione estiva dei grappoli e le buone temperature del mese di agosto hanno permesso di ottenere un vino di buona qualità.
Il vero fuoriclasse della serata: il colore ha una marcia in più rispetto al granato un po’ spento del 1983. Proprio il suo colore più lucente sembra suggerire un’idea generale di maggiore integrità che trova conferme all’assaggio. Il primo naso è giocato sui toni del rabarbaro, della liquirizia e del cacao amaro; poi, la china e la frutta sotto spirito; in chiusura, la mostarda più che l’albicocca disidratata. Tannino presente ma setoso, sorso che ancora può contare sulla freschezza e una bella scia di sapidità che gli conferisce ulteriore piacevolezza. Disarmante per eleganza, coerenza delle sensazioni e facilità di beva. Me l’avessero proposto alla cieca avrei sinceramente faticato a dargli tutti quegli anni…
Ecco, ora capirete perché mi sono sparato in allegria i cento e passa chilometri da Milano a Pedemonte. Un paio di cosette ve le posso dire: –uno ne è valsa la pena e –due ho fatto pace (quasi) con l’Amarone.
Foto dell’Associazione Italiana Sommeliers Verona
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