La vera storia della pizza fritta napoletana
di Alfonso Sarno
È proprio vero: in cucina nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma. È il caso della pizza fritta, variazione/parente pauperimma delle classiche margherita, marinara o napoletana cotte in un rovente forno a legna, “inventata” secondo i più dalle ingegnose donne dei quartieri napoletani alla fine della seconda guerra mondiale ed efficacemente rappresentate da una solare, prosperosa Sophia Loren in “Pizze a credito”, uno dei sei episodi del film “L’oro di Napoli”, tratto dall’omonimo romanzo di Giuseppe Marotta e diretto nel 1954 da Vittorio De Sica.
Invece no, perché una prima versione di questa compare nel «Ritratto o modello delle grandezze, delizie e meraviglie della nobilissima città di Napoli», componimento in versi scritto a Milano nel 1588 dal marchese Giovanni Battista del Tufo che in preda alla nostalgia canaglia, volle cantare le magnificenze della sua città che conquistava con le tante golosità. Non soltanto artistiche o culturali ma anche gastronomiche, tra queste ultime, le «zeppulelle» ovvero pasta cresciuta fritta e cosparsa di miele.
La vera storia della pizza fritta napoletana. A volere essere severi filologi più che all’odierna pizza fritta possiamo paragonarle a dolci poveri tipo le zeppole dell’Immacolata di Castellammare ma è indubbio che ne anticiparono la versione salata, più simile a quella attuale, che troviamo nel trattato «Cucina teorico-pratica» scritto nel 1837 da un altro nobile, Ippolito Cavalcanti duca di Buonvicino, che per il pranzo del martedì santo dà la ricetta delle «zeppolelle de baccalà», fritte “dinto a na tiella chiena d’uoglio, e jon, jonne, e asciutte l’accuonce dinto a lo piatto sujo” mentre per il giovedì santo consiglia le “pezzelle fritte de pasta cresciuta mbottunate d’alice”.
Cibi che continuarono a costituire molte volte il pranzo dei più poveri tra i poveri che non potevano permettersi uno dei piatti di maccheroni venduti dagli osti che piazzavano nelle strade napoletane «le loro caldaie, dove i maccheroni bollono sempre, i tegami dove bolle il sugo di pomidoro, le montagne di cacio grattato, un cacio piccante che viene da Crotone».
Lo scrive Matilde Serao nel libro “Il ventre di Napoli”, pubblicato nel 1884 per raccontare la vita degli abitanti dei “bassi” del centro antico dove testimonia, inoltre, come la pizzella fritta del Cavalcanti continuasse ad essere presente nell’alimentazione del popolino che con un soldo dal friggitore può avere “quattro o cinque panzarotti, vale a dire delle frittelline in cui vi è un pezzetto di carciofo, quando niuno vuol più saperne, o un torsolino di cavolo, o un frammento di alici”.
Presente ma sottotono sulle tavole campane ed a rischio di essere nel tempo dimenticata: a sdoganarla in grande spolvero furono – come già detto – le donne del proletariato che, prostrate dalle privazioni della guerra, non avevano neanche più gli occhi per piangere e non potevano permettersi nemmeno una semplice pizza “alla marinara” con pomodoro, origano, aglio, olio. Diventata un lusso anche perché molti forni a legna erano andati distrutti: industriose farcirono il tradizionale impasto della pizza con il poco che avevano nella dispensa per lo più ricotta e ciccioli ottenuti dalla lavorazione del grasso del maiale e, quando non li avevano, si accontentavano di mangiare, da sola, la pasta fritta che “cresciuta” sfamava, dando un senso di sazietà.
Chiamata per distinguerla da quella imbottita “’o battilocchio”, così viene citata nella famosa “Rumba d’’e scugizze” di Raffaele Viviani e venduta davanti alla porta del basso dalle donne che invitavano i clienti con il grido che potevano pagarla “a ogge a otto” ovvero ad otto giorni. Grazie a loro la pizza fritta è diventata lo street food napoletano d’eccellenza declinandosi anche in altre versioni come la montanara, farcita con pomodoro, basilico e parmigiano grattugiato o, in onore della Dieta Mediterranea di cui quest’anno ricorre il decennale del riconoscimento Unesco, con un ottimo cacioricotta cilentano.
La vera storia della pizza fritta napoletana
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