Mondragone: annunciata la scoperta di un fossile di vite romana
In Campania alle origini della viticoltura mondiale
Tutti certamente hanno sentito parlare, almeno una volta nella vita, di un tal vino Falerno, “un vino antico”. Ma pochi davvero lo conoscono.
Si nomina, in genere, Plinio il Vecchio, si rievoca qualche immagine rubata a mosaici, vasellame e affreschi delle ville patrizie, ma, eccetto una ristretta cerchia di addetti al settore, la gran parte perfino degli appassionati più motivati, ignora, in fondo, questo testimone storico della viticoltura campana e dell’alto casertano.
Il fatto in sé non sarebbe così grave, se non fosse che, il Falerno è il padre di tutti i vini d’Italia e il primo vino a denominazione di origine dell’Umanità. Ad affermarlo sono le fonti storiche e alcuni studi recenti.
A loro si aggiunge, da qualche anno, la voce di 21 produttori che in questo fenomenale pezzo di storia nazionale hanno creduto, dando vita ad una produzione che è ora di valorizzare. “Sarebbe da stupidi non farlo” ha detto il ministro Mario Landolfi, in conclusione del seminario di studio dal titolo “Dal Falernum al Falerno”, promosso a Mondragone (Caserta) da Agrisviluppo, azienda speciale della locale Camera di Commercio, Regione Campania, Comune e Provincia di Caserta, moderata dal giornalista de il Mattino Luciano Pignataro.
Da questa volontà, condivisa dall’assessore regionale all’Agricoltura Gianfranco Nappi, che ha promesso il supporto della Regione ad un’iniziativa a favore del Falerno e per la realizzazione di Museo ad esso dedicato a Mondragone “che veda la rete delle associazioni e tutti i produttori insieme”, ha preso le mosse la suggestiva ricostruzione scientifica proposta dall’Archeologo Luigi Crimaco, dall’Agronomo Nicola Trabucco e dal Professore Luigi Moio.
Storia, suolo e pratiche enologiche legate al Falerno sono state descritte con grande dovizia di particolari. Per capire, insomma, e di lì, passare all’azione.
Azione, che il presidente di Agrisviluppo Giuseppe Falco, ha articolato in tre proposte che l’Azienda si attiverà per realizzare: un vitigno sperimentale che, sul modello di quello di Pompei, ma su suoli demaniali e con risorse pubbliche, faccia rivivere il Falerno come era piu’ di 1500 anni fa; una Fondazione che riunisca tutti i produttori e che sia il motore delle iniziative; e, infine, il Museo del Falerno in una sede prestigiosa.
La storia del Falerno è la storia di Roma imperiale, di una Roma al top della sua potenza, che in Campania fece di questo vino scopo e risultato di un’alacre attività che arricchì le casse dell’Impero e che fece oltremodo diventare ricchi i coloni, per lo piu’ soldati in congedo, che, in quel fazzoletto di terra dell’Ager Campanus, si stabilirono a fronte della concessione di piccoli appezzamenti. E’ questo l’Ager Falernus; oggi ancora identificabile con il triangolo di terra esposto a Sud, compreso tra Carinola, Capua e il Massico. Fino all’antica Sinuessa, l’odierna Mondragone.
Qui, una dietro l’altra, è stato spiegato, sorse un incredibile numero di aziende, almeno 150, e grandi ville le cui rovine è stato possibile recuperare e studiare fino al ritrovamento, tramite sofisticate indagini ancora in corso, dei pollini della vite coltivata all’epoca e di una serie di resti fossili di alghe e dei tutori che la sostenevano (olivi, pioppi e noccioli, principalmente), nonché di altre piante (leguminose principalmente), che erano funzionali alla coltivazione della vite per il loro contributo in azoto. “Si tratta – ha detto Luigi Crimaco, in conclusione dell’intervento che ha aperto i lavori – di una straordinaria scoperta che sarà presto oggetto di una attività di pubblicazione scientifica di rilievo internazionale”.
Ma perché il vino amato da imperatori e re proveniva proprio da queste terre? Esposto al sole o affumicato, trattato e aggiustato per correggerne il sapore acido e amaro che aveva; con polveri di marmo, argille, albume d’uovo (chiarificatori del tempo); con acqua di mare; con miele e spezie varie – come ha raccontato Luigi Moio, che ha concluso la serie di relazioni scientifiche – il Falerno dei romani era una bevanda molto diversa dal quello odierno.
“Eppure era solo quello prodotto qui, a risultare il piu’ gradito e richiesto” ha concluso il Professore.
Sulla stessa linea i risultati presentati da Nicola Trabucco, frutto di una campagna di prelievi e analisi condotta tutto intorno al Massico che mostra come sull’impianto di base calcareo-dolomitico del massiccio, un’importante influenza abbia avuto l’attività del vicino vulcano di Roccamonfina.
Ed ecco, ha dimostrato Trabucco, che i terreni ora sciolti, ora a medio impasto, ora piu’ argillosi, rilevati, associati ad una serie di felici condizioni legate ad altri parametri (capacità di scambio, colloidi e sostanze organiche), fanno di quel triangolo di terra un territorio unico e particolarmente vocato alla coltivazione della vite e alla produzione del Falerno.
“In assenza di un significativo intervento dell’uomo nella vinificazione del vino, fondata, all’epoca, su una serie di pratiche poco piu’ che empiriche – ha sottolineato ancora Moio – è il microclima, a fare la differenza”. Un concetto che i francesi hanno fatto proprio molti secoli dopo coniando la parola “terroir”.
Insomma, per dirlo ancora con le parole professor Moio “in questo territorio i romani arrivarono alla definizione del primo cru al mondo”. E lo fecero ad esso dedicando non solo le uve migliori, ma anche dotandolo di contenitori adatti (le anfore, partite da Puteoli e ritrovate perfino alla Foce del Fiume Mekong) e indicando, puntualmente, la provenienza, l’annata e il nome del produttore.
Ma anche differenziando i vini in Asterum (forte), Dulce (dolce) e Tenue (leggero), con riferimento alla struttura, in Caucinum (Altocollinare), Faustianum (Pedecollinare) e Falernum (Pianura) in base all’esatta collocazione e provenienza.
Una storia incredibile, insomma, da approfondire e alla quale appassionarsi.
Se lo avevate mai sentita, adesso, ignorarla significherebbe dimenticare un pezzo di voi.
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