Vabbé, l’avete capito. Non abbiamo per nulla digerito l’aggressione di Striscia alla cucina di qualità italiana: è stata una campagna stupida, dritta alle corde dell’ignoranza più becera, capace di evocare paure ancestrali. Violenta, e dunque ottusa come tutte le cose violente. La storia dei giapponesi che si sono visti recapitareun conto di 579 euro restituisce un po’ di dignità perché disvela quali siano i veri problemi della ristorazione italiana. Ecco perché rilanciamo per voi, cari lettori, il pezzo pubblicato oggi dal Messaggero firmato dal più importante critico enogastronomico della Capitale. Buona lettura
di GIACOMO A.DENTE
PRENDIAMO un turista qualsiasi. Giapponese o kosovaro, americano oppure argentino. E facciamo finta che, scorrendo il dito sulle eccellenze della Capitale, voglia concedersi il massimo dei massimi di tutte le Guide. Il risultato, senza dubbio cadrebbe sulla Pergola dell’Hotel Hilton: tre stelle Michelin, il lusso e la bontà assolute e un “set” indimenticabile, gestito da un genio come Heinz Beck. Quanto al prezzo, 198 euro per nove portate, più divertimenti di contorno compresi.
Peraltro, lo stesso turista potrebbe godersi lo spettacolo del locale di Antonello Colonna all’interno del Palazzo Nazionale delle Esposizioni. Look modern-chic e un menu, firmato da un guru della gastronomia, a 90 euro per sei portate (compresi pre-antipasti e pre-dessert), senza il mortificante balzello di qualche spicciolo a rimborsare pane e coperto.
Le grandi Guide non annoverano ”Il Passetto” tra i luoghi dell’eccellenza, ma senza dubbio il locale può vantare un’ antica tradizione e una rendita di posizione a pochi passi da Piazza Navona, che non sono poca cosa. Tutto questo non giustifica il cliente a prepararsi ad un conto così elevato.
Ma chi si siede a quei tavoli ha il diritto di non pagare come se fosse in uno dei riconosciuti salotti buoni dell’alta cucina. All’Antica Pesa di Trastevere l’intero vippaio internazionale accorre sapendo di trovare piatti buoni e conto tranquillo e questa è una buona regola del lato goloso dell’accoglienza nella Capitale. Mettersi a fare esercizi di ermeneutica del conto “incriminato” è materia scivolosa.
Hanno preso l’aragosta? Bene, ma era aragosta o astice, era fresca o surgelata, e il discorso vale anche per la spigola? Così non se ne esce. E che vino è stato servito per quella cifra? Su quella voce i ricarichi possono essere stellari, e nessuno può dire nulla.
Né rimane memoria, al di là della rabbia per un conto “pesante”, se la coppia giapponese abbia almeno mangiato “bene”. L’analisi gastronomica di questa storia poco edificante è difficile da stilare. Ricette classiche, banali, sul filo di “chille che costa ‘e chiù”, come diceva Totò, niente che rivendichi orgogliosi lombi regionali, niente di più.
Ne resta che a Roma il turista gourmet rischia di non essere sempre tutelato, tra la Scilla dei locali a menu fisso e il Cariddi dei luoghi di antica fama che bastonano senza pietà. Peccato. Ditelo ai giapponesi, con un sorriso e con la consapevolezza di raccontare una Capitale dell’arte, della bellezza, e anche del gusto. Di certo, non dei furbetti.
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