di Raffaele Mosca
È la regione più difficile da raccontare: così variegata da rendere impossibili le generalizzazioni. Con una superficie vitata tre volte superiore a quella della Nuova Zelanda e oltre ottanta vitigni autoctoni piantati dalle dune fronte mare ai crinali delle montagne, la Sicilia del vino è molto più di una nazione a sé stante: quasi un “continente in miniatura”, come amano definirla i produttori. Per realizzare un report completo su questa galassia, ci vorrebbero non giorni, ma mesi trascorsi a sondare vigneti che cambiano suolo, esposizione e condizioni climatiche di chilometro in chilometro. Se non altro, però, Sicilia En Primeur ci ha consentito di farci un’idea generale sulla situazione negli areali principali attraverso la produzione di un manipolo di aziende molto importanti – per numeri e/o per notorietà – che fanno parte di Assovini Sicilia.
Giunta alla sua diciottesima edizione, Sicilia En Primeur, kermesse organizzata da Assovini con la collaborazione di AB Comunicazione e Just Sicily, si è svolta quest’anno nella cornice magnifica di Erice: borgo medievale situato a 750 metri di altitudine, con una visuale che spazia dalle alture lambite dal mare della Riserva dello Zingaro alle saline a sud di Trapani, passando per Favignana che si staglia come una farfalla gigante sull’orizzonte. Un luogo altamente simbolico, perché è stato castrum romano, feudo arabo-normanno, tra le roccaforti di Federico II, il monarca più illuminato e cosmopolita del Medioevo, e poi baricentro della comunità scientifica siciliana, grazie all’istituzione al centro di cultura scientifica Ettore Majorana.
La due giorni è partita proprio con un convegno moderato da Massimo Giletti nelle sale del centro, durante il quale sono stati presentati i risultati degli ultimi rapporti sul vino siciliano. Dalle analisi, si evince il cambiamento radicale della percezione del brand Sicilia negli ultimi venti anni. Rilevazioni realizzate nei primi anni 90’ evidenziavano, infatti, che, all’epoca, la regione era famosa per il cibo, il paesaggio, la natura, l’arte e la cultura, ma non per i suoi vini, traviati da stereotipi che li volevano alcolici, opulenti, rustici e poco longevi.
Oggi la reputazione è completamente diversa: i concetti chiave associati dai consumatori al vino siciliano DOC sono: alta qualità (39% degli intervistati), forte e distintivo (36%), ricco di storia (35,4%), genuino (33%), di valore (24,7%). Merito soprattutto del miglioramento delle tecniche agronomiche ed enologiche, del marketing e della comunicazione, ma anche dell’enfasi posta sulla sostenibilità – il 40% del vigneto regionale è coltivato in regime in bio o in lotta integrata – e della riscoperta di una viticoltura diversa, d’alta collina e di montagna, che era quasi sparita e che si è rivelata indispensabile per la produzione di vini più moderni, meno stereotipati. Pensiamo all’exploit dell’Etna, passato dall’abbandono più assoluto ad essere uno dei comprensori vitivinicoli più fiorenti d’Italia e d’ Europa. La riscoperta di Nerello Mascalese, Nerello Cappuccio e Carricante – autoctoni che trovano il loro habitat naturale in quota – è solo l’apice di un fenomeno più vasto, rafforzato anche dalle esigenze legate al cambiamento climatico. Grillo, Catarratto, Inzolia, Perricone, Nero d’Avola, oltre a Chardonnay, Syrah e Cabernet Sauvignon – che qui sono diventati degli autoctoni de facto – vengono oramai piantati regolarmente sopra i 600 metri con risultati eccellenti.
Questo trend ha un altro risvolto positivo importante: la rinascita di zone interne martoriate dallo spopolamento. Due esempi lampanti sono quelli di Sambuca di Sicilia, in provincia di Agrigento, e Castiglione di Sicilia sull’Etna, paesi con una storia millenaria e un patrimonio edilizio gravemente compromesso dall’abbandono, dove, negli anni passati, le amministrazioni comunali si sono viste costrette a vendere immobili abbandonati alla cifra simbolica di un euro. Oggi questi luoghi risorgono proprio grazie alla presenza nel territorio di vigne e cantine importanti, che hanno creato posti di lavoro e fatto da volano per l’ enoturismo.
I BIANCHI SICILIANI:
Il primo dato importante emerso dalle degustazioni di Sicilia En Primeur è il livello qualitativo molto alto dei vini bianchi, che superano di media i rossi. Sulla sfilza di autoctoni a bacca bianca spicca il Carricante, principe dell’Etna Bianco, tra i vini più in voga tra gli appassionati negli ultimi anni, spesso paragonato a Chablis e Riesling di Mosella per tensione, raffinatezza e longevità. Il vitigno si è acclimatato particolarmente bene sulla sponda est e sud-est del vulcano – e in particolare a Milo, l’unico comune dove si può produrre l’Etna Bianco Superiore – ma comincia a dare risultati interessanti anche sul versante Nord, dirimpetto ai Nebrodi. Le conseguenze di questo trend, però, non sono tutte positive: “ Il problema dell’Etna è che di Carricante ce n’è molto meno rispetto al Nerello Mascalese – spiega Salvino Benanti, seconda generazione della famiglia che ha dato il via al rinascimento dell’Etna – per questo rischiamo una situazione di squilibrio, con una domanda di Etna Bianco che non riusciamo a soddisfare e un eccesso di offerta di Etna Rosso.” Non a caso, in molti, nei nuovi impianti, stanno rimpiazzando le uve rosse con il Carricante. Questa scelta andrà a cambiare l’assetto della produzione negli anni a venire, trasformando l’Etna in una zona sempre più bianchista.
Le altre due varietà da tenere d’occhio sono Grillo e Catarratto, vitigni cardine del Marsala, già da tempo impiegati anche nella produzione di vini bianchi d’annata. Il Grillo è il più giovane degli autoctoni siciliani: è nato nella seconda metà dell’ottocento da un incrocio tra Zibibbo e Catarratto realizzato dal Barone Mendola di Favara. Del Catarratto, invece, si perdono le tracce nella notte dei tempi: le prime menzioni risalgono ai primi decenni del XVI secolo. Essendo parenti stretti, i due vitigni hanno molte somiglianze: la prima e più importante sta nella presenza di tioli nell’uva che danno vita ad aromi caratteristici di erba falciata, agrume verde, mughetto e bosso, erbe spontanee. Ma se il primo è già da anni impiegato per la produzione di vini di buon livello, il secondo è stato legato fino all’altro ieri alla produzione di vini generici, ottenuti spingendo le rese al limite, o di basi per brandy e Vermouth. Fortunatamente questo gap sta venendo meno, anche grazie ad una serie di ricerche effettuate dall’Università di Palermo. Anzi, è proprio il Catarratto – nelle sue varianti Extra Lucido e Comune – che, in quest’occasione, ci ha offerto il parterre più ampio di vini contemporanei – dritti, dinamici, minerali e garbatamente vegetali – mentre del Grillo si continua ad esaltare in molti casi la parte aromatica esotica, un po’ “ruffiana”, che rende molte etichette sì piacevoli, sì immediate, ma un po’ appiattite su di uno schema stagno e tendenti all’ossidazione nel breve raggio.
Discorso completamente diverso quello relativo allo Chardonnay, il più radicato dei vitigni internazionali in Sicilia, che ha foraggiato la riscoperta dei bianchi dell’Isola nel periodo cavallo tra gli anni 90’ e i primi 2000. Tutt’ oggi in Sicilia si producono almeno un paio dei migliori Chardonnay d’Italia, ma il livello medio non è esaltante. Il problema è innanzitutto stilistico: si tende ancora a vendemmiare troppo tardi e fare un uso del legno esagerato. Anche in questo caso, la soluzione sembra risiedere nelle vigne ad alta quota, che danno una materia prima naturalmente più adatta alla produzione di vini più fini, meno caricaturali e più territoriali.
Tolti questi filoni principali, quel che resta è un mosaico complesso composto da vini da varietà minori, assemblaggi insoliti o tentativi di vinificare varietà internazionali meno diffuse (per esempio il Muller Thurgau o il Gewurztraminer che, nelle zone più fresche, danno risultati dignitosi). Storie molto interessanti, che, in molti casi, sono ancora tutte da scrivere, come quella del Moscato di Noto – vinificato in versione fermi da pochissimi produttori, ma mediamente molto buono – del Grecanico o dei bianchi aromatici di Pantelleria, Favignana e delle Lipari, fratelli minori degli unici passiti italiani che, grazie all’estrema potenza evocativa, tengono botta anche in tempi in cui il vino dolce paga lo scotto dell’ evoluzione del gusto.
I migliori vini bianchi di Sicilia en Primeur
Di Giovanna – Sicilia Grillo Helios 2019
E’ il vino più rappresentativo del trend cui sopra: solo uve Grillo da vigne a 830 metri sul mare nell’entroterra di Sambuca di Sicilia. Ha un profilo da bianco di montagna, con toni di biancospino e pesca noce, erbe officinali e un cenno iodato. E’ dritto e scattante, agrumato e appena erbaceo nei rimandi retro-olfattivi. Scorre con grande facilità, verticale e rinfrescante al pari di un bianco altoatesino.
Cusumano – Lucido 2021
Il più valido tra i Cattarratto diffusi su larga scala: solo uve del biotipo Extra Lucido – così chiamato perché la buccia è priva di pruina – coltivate a 500 metri sul mare nella zona di Calatifimi (Trapani). Ha un profilo molto varietale, incentrato su note di mandorla bianca ed erbe officinali, biancospino e limone candito, con uno sviluppo dritto e rinfrescante, sapido e appena ammandorlato nella chiusura di buona persistenza.
Vivera – Terre Siciliane Bianco A’ Mami 2019
Un’etichetta che fa da ponte tra est e ovest dell’Isola, prodotta da Loredana Vivera con uve Carricante di Contrada Martinella di Linguaglossa (Catania) e Chardonnay dalla tenuta di famiglia a Corleone (Palermo). Mette insieme la tensione, la freschezza del bianco etneo con la piacevolezza più immediata dell’uva internazionale. Gioca su toni di nespola e pesca gialla, cappero in salamoia e timo; ha un sorso ampio nei rimandi alla frutta a guscio estiva, con un cenno vegetale che lo rinfresca e un finale in cui emerge la spinta salina e citrina del Carricante.
Barone di Villagrande – Salina Bianco 2020
Una grande azienda bianchista etnea che a Salina, la seconda per dimensioni delle isole Eolie, ha rilevato un appezzamento di 7.300 piante, pari a circa 2 ettari. Numeri irrisori in termini assoluti, ma per un territorio così impervio, con uno spazio coltivabile estremamente ridotto, è quasi un latifondo. L’assemblaggio consiste per il 40% di Malvasia delle Lipari e per il resto di Catarratto e vitigni reliquia come la Rucignola. Il vino deflagra su note di albicocca e fiore d’arancio, rosa gialla, la macchia marina in tutte le sue declinazioni. Il sorso ammicca con i suoi ritorni aromatici avvenenti, smorzati dalla spinta salina e dai rintocchi ammandorlati tipici dei bianchi fermi che contengono uve aromatiche. Perfetto per l’abbinamento con le tartare di pesce.
Tasca d’ Alemerita – Sicilia Grillo Mozia 2021
Dalle vette del Grillo montano di Di Giovanna all’isola di Mozia, nel mezzo delle saline di Marsala, un tempo di proprietà della famiglia Whitaker, che ha segnato la storia del più famoso vino liquoroso siciliano. Ha un profilo inequivocabilmente marino: cappero e finocchietto selvatico, pompelmo e verdello siracusano, un’idea salmastra che rasenta le acciughe sotto sale. Segue lo stesso tracciato in bocca, con un ritorno di nespola e pesca che rimpolpa la progressione, e poi agrumi, iodio, erbe spontanee nel finale di buona durata.
Benanti – Etna Bianco Contrada Cavaliere 2020
La famiglia che ha fatto la storia dell’Etna, credendo nel suo potenziale già trent’anni fa, quando i vinificatori in zona si contavano sulle dita di una mano, non hai smesso di espandere il suo business, anzi ha investito molto negli ultimi anni, forte del background manageriale di Salvino Benanti, figlio del fondatore Francesco, che è tornato a casa dopo aver lavorato dodici in una banca londinese. Il Contrada Cavaliere è una delle aggiunte più recenti ad una gamma aziendale che conta più di quindici etichette; proviene da un appezzamento in quel di Santa Maria Licodia – versante sud-ovest de “A’ Muntagna” – che sfiora i mille metri d’altitudine, ed esibisce un profilo soave e delicato, giocato su toni di lemon zest e mais tostato, glicine ed erbette, con acidità sferzante e cenno idrocarburico di fondo che fa molto Riesling Renano.
Tornatore – Etna Bianco Pietrarizzo 2020
Una realtà assai più giovane della precedente, partita con l’imbottigliamento nel 2014, ma che, nel giro di pochi anni, è diventata una delle più importanti dell’Etna, con oltre 60 ettari in produzione. Merito di Francesco Tornatore, un self-made man come ce ne sono pochi nel sud Italia. Nato proprio sull’Etna, da una famiglia di viticoltori, ha costruito un’impresa tech con centinaia di dipendenti prima di tornare ad occuparsi di vigna e vino. Degustato alla cieca, il suo Pietrarizzo 2021, da singola contrada nel versante Nord, propone un profilo accattivante: un po’ meno affilato della media per via del passaggio in legno, ma con una bella mineralità fumosa che fa da cornice a uno sviluppo ampio su miele d’acacia e zafferano, mentuccia e susina gialla, mandorla tostata. Ha un sorso all’insegna del binomio freschezza-cremosità, con finale preciso e profondo nei rimandi salini e fruttati.
Tasca d’Almerita – Nozze d’Oro
Un vino storico, prodotto da quasi trent’anni nella tenuta Regaleali di Sclafani Bagni (PA). E’ un assemblaggio dell’indigena inzolia con il Sauvignon Tasca, variante del Sauvignon Blanc presente in una sola vigna a 530 metri sul mare piantata da Lucio Tasca d’Almerita nel 1998. Piace la 2019 con il suo profilo giocato su toni di fiore d’arancio e fieno, zagara ed erbe aromatiche, che ritornano sul fondo di un sorso all’insegna dell’equilibrio tra freschezza, ritorni vegetali, aromaticità garbata dal Sauvignon Tasca. Ma la 2010 è tutta un’altra storia: miele, idrocarburo, erbe aromatiche a profusione, e una spinta acida intonsa che ci dice che ha ancora tutta la vita davanti.
Alessandro di Camporeale – Catarratto MNRL Vigna di Mandranova 2020
Un altra versiona di Catarratto Extra Lucido di un’azienda di punta della Sicilia occidentale con sede spalle di Monreale. Dal vigneto a 450 metri sul mare viene fuori un vino particolarmente espressivo, che dispensa toni di pesca giallona e crema di limoni, rosa gialla e bergamotto, con il solito tratto erbaceo a fare da cornice. E’ affilato in entrata, poi più morbido e generoso grazie al passaggio in tonneaux di una parte della massa, con finale in equilibrio tra freschezza, polpa fruttata e ritorni di erbe officinali che chiama un cous cous di pesce alla trapanese.
Barone di Villagrande – Etna Bianco 2020
La storia dei bianchi siciliani parte da qui: da Milo, la Londra di Sicilia, un borgo vista mare dove le precipitazioni annuali sfiorano i 1300 millemetri. C’era già stato Mario Soldati negli anni 70’: aveva assaggiato il bianco della famiglia Nicolosi e l’aveva descritto come uno dei migliori d’Italia. La musica, a distanza di cinquant’anni, non sembra essere cambiata: l’Etna Bianco 2019 è un piccolo prodigio. Si avvicina in maniera impressionante allo Chablis con i suoi aromi iodati e di pietra focaia che s’intrecciano con nespola e miele d’acacia, ginestra e zenzero candito, finocchietto selvatico. Apre dritto e incalzante d’agrume, poi si espande e tira fuori una polpa fruttata ammiccante, per chiudere roccioso e affumicato, salato e balsamico, ma con un tocco glicerico di fondo che lo rende perfettamente equilibrato. Il proverbiale pugno di ferro in guanto di velluto!
Tasca d’ Almerita – Sicilia Chardonnay Vigna San Francesco 2019
Il bianco che ha attratto l’attenzione della critica internazionale negli anni 90’, figlio di un’epoca in cui si credeva che la Sicilia potesse diventare una nuova California . Da vigna messa a dimora nel 1985 da Lucio Tasca, ad oltre 500 metri sul mare nell’entroterra palermitano, esibisce un profilo varietale – ma senza esagerazioni – con toni di burro fuso e pietra focaia, pesca nettarina e ananas, zagara e ginestra, refoli balsamici di mentuccia e lavanda. In bocca smarca alla grande gli stereotipi sugli Chardonnay nostrani, offrendo acidità pimpante, salinità corroborante, polpa fruttata avvolgente e nessuna traccia di legno in eccesso, rimandi floreali e balsamici nel finale di splendida finezza. Tra i vini più costanti nel tempo, ha anche il grande pregio di invecchiare molto bene.
Pietradolce – Terre Siciliane Carricante Vigna Sant’Andrea 2017
Un altro personaggio importante, Michele Faro, tra i più grandi vivaisti d’Italia, e un’altra azienda eccellente con sede sul versante Nord. Questo è il suo bianco più ambizioso: un raro esempio di orange wine da uve Carricante coltivate a 850 metri in quel di Milo, con un affinamento lungo dieci mesi in tini di legno da 20 ettolitri. Ha un colore dorato intenso – tendente all’ambrato – e dispensa profumi complessi di zafferano e pepe bianco, mandorle tostate, miele di millefiori e un soffio affumicato in crescendo. Ha più polpa e volume degli altri Carricante assaggiati, ma anche freschezza tonica, salivante che dinamizza la massa cremosa, mielata. Monumentale il finale scandito da rimandi speziati ed idrocarburici.
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