di Marco Milano
Il “South China Morning Post” e “Il Foglio” hanno rilanciato la notizia del boom delle salse asiatiche. Un business che ne fa anche un’esclusiva tutta delle tavole dagli occhi a mandorla, vale a dire quello delle salse di soia. E si scopre che quella “guarnitura” esotica che abbiamo imparato ad apprezzare, tanto da intensificare anche in Italia il suo consumo per i piatti della tradizione occidentale, ha una serie di varianti e di variabili. La più conosciuta, famosa e anche la più semplice resta la “Kikkoman”, facile da reperire anche nei supermercati e nelle botteghe alimentari e subito riconoscibile dalla bottiglia con il tappo rosso.
Ed è proprio la sopracitata, la salsa dell’imperatore, stando alla storia, visto che si parla dei primi anni del secolo scorso, quando mettendo insieme un cartello di piccole imprese familiari, nasce un’azienda, la Noda Shoyu, che si trasformerà, poi, appunto nella “Kikkoman”. Il legame con la casa imperiale sarebbe da addebitare allo stesso edificio dove si produce la salsa di soia, realizzata con una “ricetta” tradizionale, fatta con la fermentazione dei fagioli di soia, rigorosamente a chilometro zero. In ogni caso la “Kikkoman” per fronteggiare la crescente richiesta e la moda esotica che ha ormai travolto anche le tavole occidentali, si presenta pure nelle versioni gluten free, quella con meno sodio ed anche una a doppia fermentazione. Insomma una “vetrina” che farebbe della salsa di soia una piccola succursale di una “cantina” con varie etichette, sulla falsariga del mai tramontato vino.
E poi, proprio come per prodotti di più largo consumo, anche per la salsa di soia si scopre che ci potrebbe essere un derby tutto asiatico. La versione cinese, infatti, è più chiara di quella giapponese che si presenta invece più scura ed anche più densa. A donare quest’ultima caratteristica sarebbe la presenza di frumento, assente invece nella salsa del paese di Mao.
Le radici di tale differenza affonderebbero in epoche antiche e ormai tramontate, quando secoli orsono nacque in terra cinese prima di essere esportata (e modificata) in Giappone attraverso il viaggio dei buddisti con bagagli e abitudini alimentari al seguito. Altra “discussione” intorno alla ricetta della salsa di soia sarebbe quella della presenza del sale, con la linea iposodica che la farebbe da padrona, in considerazione della crescente abitudine a dimenticare nelle credenze il sale, messo al bando alla vista delle analisi del sangue. E sarebbe di nuovo sul quantitativo di sale la nuova sfida tutta orientale tra Cina e Giappone con la salsa povera di sodio che batte bandiera nipponica. In ogni caso in attesa di capire a chi assegnare il titolo di campione della salsa di soia, va detto che il liquido dalle tradizioni imperiali, è sempre più prezioso in considerazione di una lettura di dati che porta il 2020 come anno da mercato globale da oltre trenta miliardi di dollari. Va da sé che è allo studio una salsa di soia made in Italy con una ricetta originale tutta tricolore…
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