Non c’è italiano che non ci abbia provato: fare la pizza a casa o nel forno in giardino. E’ più diffusa di quanto si creda l’abitudine di fare la pizza in casa.
Nelle case nelle quali ancora si cucina, una volta a settimana è il giorno della pizza. Fa felice i più piccoli e diverte i grandi. I meno laboriosi si accontentano di acquistarla e farsela consegnare a casa. Un motorino con la cassetta al posto del passeggero consente che arrivi a destinazione ancora calda. Alcuni invece se la vanno prelevare e la trasportano nei cartoni. Ma i buchi che servono per evitare che la condensa faccia arrivare a casa la pizza zuppa di vapore, fanno brutti scherzi se non si galoppa sulla via del ritorno. Risultato: la pizza è gommosa e i latticini si sono induriti diventando come un chewing-gum troppo masticato.
Ma torniamo a chi la pizza la fa. Tendenzialmente sono sempre pronti a scroccare segreti dagli altri. E guardano con un misto di invidia e ammirazione quelle degli altri.
Quanto piacerebbe a costoro avere un tutor, un esperto vero, che so, un pizzaiolo, che gli sveli qualche segreto. E se questo pizzaiolo è l’unico segnalato dalla guida Michelin? Ancor meglio.
Avere accanto, per qualche ora uno come Enzo Coccia, il patron de La Notizia di Napoli, che quest’anno si è guadagnato questo ambito riconoscimento, per correggere gli errori e fare una pizza più buona, è un sogno per chi ne conosce il lavoro. Coccia questo genere di attività, invero, con la sua Pizza Consulting, la svolge professionalmente: transitano per il suo bancone più di una ventina circa di studenti ogni anno provenienti da tutto il Mondo.
Con un corso di tre o quattro mesi si esce Pizzajuolo o si torna a casa pizzaiolo. Il risultato non è uguale per tutti. Ci vuole molta buona volontà, duro lavoro ma anche un minimo di talento. Essere Pizzajuolo, poi, significa lavorare slow e avere un superiore convincimento che è questa, l’unica strada. Coccia, in tal senso, li marca a fuoco, con i 400 gradi del suo forno, i talenti di questa scuola, una scuola nella quale come dice “non parlatemi di pizza povera. La pizza – continua – è un alimento popolare che può essere di altissima qualità!”.
Ma veniamo ai consigli di Coccia.
Non mi sono fatta sfuggire l’occasione, al Salone degli Oli dop, dove Coccia è intervenuto proponendo la sua “Pizza fritta con ricotta di bufala e foglia di limone biologico di Sorrento” in occasione della Scuola di cucina, per appuntarmi alcune interessanti indicazioni per fare una buona pizza.
Gli ingredienti base
Farina, acqua, lievito (madre o fresco) e sale. “Non aggiungete zucchero, né strutto” si raccomanda il Pizzajuolo.
La farina
“Inutile pensare di fare la pizza napoletana con sole farine italiane” tuona Coccia. Un po’ dispiace, ma la questione è squisitamente tecnica, spiegherà. Per un buon impasto occorre avere resistenza, sofficità, elasticità e una giusta assorbenza dell’acqua. Occorre dunque una miscela di farine di varie provenienze in grado di garantire questi differenti apporti. Manitoba, Cazaco, farine italiane e francesi.
La prima buona notizia: chi usa il classico pacchetto di farina che compra al supermercato potrebbe secondo Coccia, anche prenderlo e buttarlo.
“Di quelli addizionati di lievitanti chimici non ne parla neanche” penso fra me. Non sono contemplati.
Si calcoli, comunque, 1800-1900 grammi di farina per litro d’acqua, dipendendo dalla umidità della giornata e stagione.
Il lievito
Assolutamente proibito il lievito secco, in polvere. “Buttatelo, insieme alla farina che avete nella credenza” dice Coccia sorridendo. L’ideale sarebbe quello madre ma conservarlo in buone condizioni richiede enorme lavoro. Passiamo al lievito fresco. “Senza esagerare in pizzeria noi con un cubo di lievito da 25 grammi facciamo circa 1200 pizze” racconta Coccia. Si soleva un “ohhh” di stupore tra il pubblico.
Si lavora dunque, sulla lunga lievitazione. 1 grammo di lievito è più che sufficiente. Qui il gioco si fa difficile: occorre accertarsi del tenore di temperatura e umidità. Dato che il lievito comincia la sua inesorabile riproduzione al di sopra dei 22 gradi occorre tenere sotto controllo la colonnina di mercurio. Durante le giornate fredde, si userà più lievito e durante quelle calde un po’ meno.
Il sale
Si calcolino 55 grammi di sale per litro d’acqua.
La lavorazione
Occorre tenere bene chiaro in mente l’obiettivo: . “Voi disponete la farina a fontana e poi ci versate al centro l’acqua poco a poco. Giusto?” chiede Coccia. “Siii!” fanno le signore in sala. “Bene. Niente di più sbagliato” risponde Coccia sorridendo. Se non si dispone di una madia nella quale mettere gli ingredienti e dove rimestarli a mano, meglio usare una zuppiera. “E’ la farina che va aggiunta all’acqua e non il contrario!” fa Coccia.
“La pizza che va fritta, va chiusa perfettamente” dice Coccia mentre sferra ripetuti e vigorosi pugni, assestati dall’interno verso l’esterno (per togliere l’aria), sui bordi della mezzaluna di pasta ripiena.
L’olio
Per friggere: extravergine di oliva. Meglio se Dop. “Ma non tutti gli oli Dop vanno bene” si raccomanda Coccia. “Occorre un fruttato leggero sulla pizza, sulla classica Margherita ad esempio. Perché non copre il sapore degli altri ingredienti” conclude.
La cottura
Si parla di pizza fritta, dicevamo. Una bella padella, abbondante olio extravergine di oliva e temperatura costante a 170-180 gradi. Durante la cottura, spiega il professor Sacchi, docente di Scienza dell’alimentazione alla Facoltà di Agraria della Federico II e esperto di gastronomia molecolare mediterranea, che con Coccia tiene il seminario, si verificano una serie di reazioni chimiche. “La pizza si dora e si gonfia e assume la caratteristica croccantezza esterna” afferma. “Ma perché si gonfia?” chiede. La domanda lascia un po’ sconcertati. “Perché l’acqua, se a 100 gradi bolle, a 180 evapora rapidamente” conclude Sacchi. Elementare, penserete. Si, bastava essere pronti alla risposta, però!
Infine: parliamo della foglia di limone. Alla temperatura di cottura della pizza, la foglia che Coccia è andato a prendere a Sorrento per l’occasione e ha inserito nella pizza, cede il suo oli essenziali e regala il suo profumo e sapore. “Ma perché?” chiede il professore. Perché – dirà -gli oli essenziali di cui sopra sono liposolubili, non certo per il mero effetto della temperatura. Cio’ vuol dire che se l’antica saggezza della signora sorrentina che ha passato la ricetta al Pizzajuolo (e con lei quella delle sue nonne) non avesse suggerito di aggiungerci un po’ del grasso del latticino e olio in cui è fritta, la foglia di limone non avrebbe dato alcun apporto.
Conclusioni
La lettura di questi appunti vi farà giungere alla conclusione che la pizza è una faccenda seria.
A molti, per un moto di dignità, farà venir voglia di non farla più. Un effetto del genere, su tutt’altro argomento, me la fece una delle prime lezioni di enologia della mia vita. Dopo aver ascoltato quale impresa è coltivare un’uva sana e vinificarla tenendo sotto controllo centinaia di parametri, mi dissi “ma fare un vino è un incubo!”.
Mi auguro che non siate arrivati a questo punto anche voi. Del resto, non è richiesto a chi la fa in casa che rispetti questi parametri, per loro “ogni pizza è bella a mamma sua” come si dice. Ma da chi la pizza la prepara per venderla, ritengo, si può pretendere che a tutto questo abbia pensato. Ci “consoli” che questa piccola lezione non è che l’inizio di un percorso molto lungo. Si è parlato “solo” di pizza fritta, in fondo. Ma vi assicuro che si apre tutto un altro capitolo se si affrontano le “semplici” pizze della tradizione, con il pomodoro e i latticini. Con Coccia per tutor, che per natura è un pignolo e per professione è un amante della pizza, il gioco si fa duro davvero. Chissà che un giorno non si abbia occasione di rubare qualcun altro dei suoi segreti
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